Mari fuori & montagne interiori, bonus & malus edilizi, letture d’infanzia & misto fritto: il mio wrap up di febbraio

Mai come nei luuunghi, interminabili ventotto giorno del febbraio finalmente archiviato ho sognato di svegliarmi e ritrovarmi nel corpo pingue e fluffoso del mio avatar, un saggio pelouche che vive di eucalipto ed autonarcosi: una pesantezza cosmica generale è stato infatto il segno distintivo di un mese partito male, proseguito malissimo e risollevatosi giusto alla fine, complice un weekend mondano di festeggiamenti e un’iniziativa libresca che mi ha catapultata indietro in tempi (assai più) lieti.

Resta il fatto che per i tre quarti del mese l’ovale tendente al bluette di Laura Palmer emanava più brio della qui scrivente; perché le parole possono essere spigoli acuminati, e per quanto l’età, addizionata ad una qualcerta innata propensione al masochismo accettazione, mi abbia resa bella elastica e abbastanza impermeabile agli urti della vita (cit. Carboni) e con meccanica efficienza abbia tenuto insieme i pezzi di famiglia scuola lavoro tempo libero…il colpo l’ho accusato.

Forte, chiaro e potente. Poi ripeto,ho imparato da tempo e a suon di cicatrici a sciogliere da sola il nodo stretto della delusione e del risentimento; ma la memoria, la cache, l’hard disk qui nella capoccia beh, quella non posso cancellarla con la sola forza di volontà.

Ma torniamo a noi e ai toni trash che più ci si confanno, suvvia. Che coi mental breakdown scansati c’ammorba già sin troppo la Ferry nazionale, il cui grande evento traumatico è stato, vabbeh, riconosciamone la portata, lo sfratto il licenziamento la malattia le stragi in mare ah no…

Sanremo 2023.

Ma dato che questo tignoso febbraio è stato così denso di accadimenti, per renderne in modo appropriato tutta la complessità, l’idiosincrasia, la polifonia…ah no, qui volevo solo dire che di febbraio ne ho piene le tasche, i drammi veri sono altri e insomma procederò per bullet point. …come quando si mandano le mail di lavoro agli americani, presente?, notoriamente capre ignoranti poco avvezzi alle, em, zona d’ombra e alla complicanza.

Tre, due, uno…via.

Il 110%, ovvero lo Squid Game condominiale. Purtroppo (okay, non purtroppo ma vedi oltre) la fatidica comunicazione di inizio lavori per Superbonus, la chimerica CILA-S, è stata presentata dal condominio in cui dimoro, tra una transenna e l’altra, ben prima della scadenza ultima dello scorso 25 dicembre. O novembre. Vabbuò.

Perché se non sapete di che vada blaterando, beati voi: ché il mondo della riqualificazione energetica è una selva oscura, irta di ostacoli e farcita da mangerie della miglior specie come solo noi italioti sappiamo concepirne, tant’è che sta (per fortuna, a detta della nostra ditta appaltatrice!) inesorabilmente finendo.

In ogni modo: da aprile 2021, quando l’adesione al Superbonus era solo una nebulosa chimera, allo scorso lunedì, quando di isolamento termico degli involucri, coibentazione dei tetti et similia avrei potuto scrivere una tesina una tesi un PhD, credo di aver preso parte a qualcosa come centordici riunioni straordinarie. Tutte rigorisamente in seconda convocazione, tutte in orario serale (leggasi: ora pasto), tutte con rare eccezioni destinate a prolungarsi oltre i limiti dell’umana sopportazione. Unica nota positiva, dall’anno scorso i simpatici convivi si tengono in un convento, convento che rivedo sempre con affetto perché lì si tenne il mio corso prematri…ah, no, perché lo fiancheggia il kebabbaro più buono dei dintorni. Ché dopo ore ed ore di sbrodolate sugli infissi e sui montacarichi uno potrà almeno sbrodolarsi un po’ anche con cipolla e pummarola?

Ecco, febbraio è stato particolarmente denso di riunioni: ordinarie, staordinarie, interne col solo caposcala (sapevate dell’esistenza dei caposcala condominiali? Ecco, neanche io. Ebbene, il nostro vive al terzo piano e tiene traccia con invidiabile zelo delle questue di tutti i dirimpettai di Scala C), interne/esterne con caposcala e maestranze della ditta appaltatrice, e ancora, preliminari a quelle plenarie ma estese al direttore lavori e/o ai serramentisti e/o elettricisti e via discorrendo. Praticamente l’agenda di Joe Biden ma senza l’ufficio stampa di Joe Biden. Ché poi secondo me per rinfrescare un po’ la Casa Bianca basterebbero la metà delle riunioni.

Ecco, aggiungiamoci che a queste estenuanti sessioni di coscienza collettiva in orario post prandiale partecipano immancabilmente quei personaggi macchiettistici che ogni agglomerato suburbano non può non annoverare, tra cui – ogni riferimento è puramente condominiale – il vecchietto con l’apparecchio acustico che interrompe esplosioni di urla beduine all’indirizzo dell’amministratore e della 15ima rata al grido di “Ma qui parlate tutti PIANO, ma qui non si sente NIENTE” (intanto i fraticelli del convento han chiamato il 113); l’ingegnere mitomane fresco di laurea di GENNAIO che boccia la suggerita modifica alla rampa di accesso a nome di tutti (tutti CHI? le tue foglie d’alloro?); il pater familias pancino che lamenta il fatto che da mesi gli amati virgulti non possono guocare a nascondino tra le fresche frasche del giardino senza il rischio di beccarsi un montacarichi sulla capoccia (vero, verissimo, per carità, senonché da che mondo e mondo gli operai non VOLANO); la bionda svampi-ma-non-così-svampi che sollecita risposta al sollecito del sollecito della sua mail del 12/12 ad oggetto gli infissi di colore bia…ah, ops, quella sono io 🙂

Ma insomma per dire che può esser tutto molto, troppo pesante, senza parlare di quando le discussioni si trascinano, sterili ma estenuanti, fuori dalle sante porte del convento, mentre sullenostre coste si consumano veri e propri drammi ed ecatombi…tipo Sanremo 2023, certo.

A ognuno la sua croce e a me il punto croce. Uno bravo un giorno magari mi spiegherà perché io mi ostini ad imbarcarmi in progetti sempre pià arditi ambiziosi insensati, trasformando quello che è il mio personale antistress in una folle maratona alla scoperta di quanti MILIONI di punti possono toglierti vista e sonno in un un mq2 di tela.

No, perché da quando scarico da Etsy i sampler delle immaginifiche ricamatrici ucraine – per sostenerle, certo, ma anche e indiscutibilmente perché imbattibili, speriamo solo non su quel fronte – è tutto un crescendo di file PDF chilometrici da stampare in A4, ritagliare nei bordi e incollare tra loro sino a ricostruire schemi dalle dimensioni di lenzuoli. Bellissimi, eh, per carità. Ma del tipo che ti fa anche chiedere: ma che, mi ha forse obbligato il medico?

Ma insomma l’ultima folle impresa è quella che vedete abbozzata in un MILIONESIMO della sua grandezza reale in foto lassù: la cameretta di un’adolescente declinata in tutti i toni del marrone brunito, tipo ottanta diverse gradazioni di DMC nocciolato, una cinquanta sfumature di grigio su tela che lungi dal procurar piacere, provoca ormai, dopo mesi di croci cappuccinate, conati di vomito solo alla vista di cibi/liquidi/arredi/abiti marroni.

Ecco, se vuoi farmi male in questo periodo, offrimi della (brrr) Nutella. Ma favorisco una visuale più ampia per spiegarmi meglio.

Ma passiamo infine alle note positive, di questo mese sfidante, e notare bene che non ci ho infilato dentro nessun riferimento al lavoro, perché, beh…perché cerco di essere positiva. Non al Covid né allo streptococco, eh, grazie.

La montagna interiore e il mare in tivvù. Nel commentare alcune mie foto su IG ad oggetto l’ultimo weekend di febbraio in montagna, tipo le prime due che vedete lassù, la mia amica Radiant evidenziava la, em, conclamata assenza dell’elemento montano in praticamente tutto l’album, che pure si chiamava “weekend in quota” o qualcosa del genere.

Alla mia amica di sempre rispondevo – mi pare dopo quattro calici di bianco, ma stavo pur sempre festeggiando non uno ma ben due compleanni, maritt’ & amica E – che esiste evidentemente una montagna interiore che laddove paesaggi limpidi, verdeggianti e gloriosi non sortiscono nessun effetto (stavo per dire: non fanno né freddo né caldo, però in montagna fa innegabilmente freddo, eh) si riscalda a suon di brindisi, risate e festosa compagnia. Con la compagnia giusta, per dire, ho persino raggiunto un punto panoramico in quota…ma anche perché poi al rifugio m’attendevano tagliere e salumi. Laddove insomma l’amore per le vette innevate non arriva, arriva tutto il resto & contesto. La montagna interiore, chiaro!

Sempre e solo ammòòre e plauso invece per il mare, il sole, la sabbia, le nasse, gli ombrelloni…o meglio ‘o mare, ‘o sole…Ebbene sì, col consueto ritardo mi sono tramutata anche io in una #marefuorersss, una fan della fortunata serie di Rai 2, insomma, che sto recuperando in ingorde sessioni di binge watching serale su Netflix. Avendo resistenze al sonno mooolto diverse, in pratica funziona così: maritt’ si spara quattro puntate a sera/notte, io la metà. Il giorno dopo io recupero e lui rivede (!). La sera dopo lui di nuovo quattro e io due. La sera dopo, recupero. Insomma poteva fare l’allenatore dell’Atalanta!

Girata nella base navale della Marina di Napoli, la fiction In effetti più fiction di così non potrebbe essere: quelli che dovrebbero essere i detenuti di un penitenziario minorile sono a metà tra i briosi ospiti di un campus americano da film anni ’80, i partecipanti a Love is Blind e, vabbeh, i fratelli minori di Gomorra, questo sì. Tra una coltellata e l’altra, una vendetta di camorra e un rapimento, si consumano tormenti d’amore e concerti karaoke; ci si affeziona però anche ai personaggi (il mio prefe, Cardiotrap, che sogno di rivedere ad Amici) ed è indiscutibile che la trama sia costruita ad arte per tenerti incollato allo schermo, puntata dopo puntata. E cioè quattro puntate o due puntate a sera, vedi sopra.

Cicale, cicale, cicale: si balla? No, si legge! L’ho tenuta per ultima, la chicca del mese, per cui non smetto di ringraziare l’amica ed autrice Sandra, conosciuta proprio grazie al blog e presto diventata un punto di riferimento per le mie maratone libresche: libri che consiglia, libri che scrive…libri della sua infanzia di cui s’è messa caparbiamente alla ricerca e che ha pure trovato!

Ecco, se come Sandra e come me coltivate per i libri una sorta di venerazione – il libro come testo, il libro come messaggio, il libro come oggetto tangibile e porta sulle emozioni modello madeleine– vi invito caldamente a leggere questo suo post.

Post che ha mi ha fatta immediatamente fiondare su Ebay alla ricerca di alcuni titoli della mia infanzia, e che ora occhieggiano tenerelli e mezzi seppiati sulla cima della pila infinita che mi aspetta sul comodino. Che poi in realtà il delizioso “Le cicale”, ed. 1971, che nella metà degli anni ’80 fu il testo di narrativa che la mia augusta genitrice scelse per una sua classe delle medie – io facevo quinta elementare o giù di lì, e curiosa mi appropriai della copia omaggio che le case editrici mandavano in estate – vorrei lo leggesse innanzitutto la minore. Perché a me, ai tempi, folgorò. Tant’è che è già in arrivo il suo sequel, “Il ballo delle cicale”, le adolescenti compagne di scuola tra luci, ombre e batticuori della prima estate libera dai compiti a casa, ovvero quella dopo la terza media. Quella che attende Cami, insomma.

Ma è vero anche che allora io ero piccina, che erano altri tempi…che faccio che rileggermelo e fodermelo prima io che non vedo l’ora, valà. Piccola nota di ulteriore tenerezza, in calce a questa copia recuperata online e priva di tagliandino commerciale – insomma identica alla mia, quindi chissà, altro reperto da prof? vi sono anche gli esercizi di comprensione del testo. Come dice Cami: ADORO.

E con questa operazione nostalgia passo e chiudo. Ma fatemi sapere se ricordate qualche titolo della vostra infanzia, che sono…siamo, okay… curiose!

Non solo Harry: top e flop delle letture del 2022

No, non leggerò quel malloppazzo di Spare perché m’è bastata la serie di Netflix per farmi ricredere sulla non-più-royal couple del Sussex/Montecito che lì per lì aveva attirato le mie simpatie: giovani, belli & ribelli. Seee.

Allergico ai media e nemico giurato della stampa che tanta responsabilità ebbe nella tragica morte della mamma (vero), il fratellino di William ha giust’appunto pensato di fare degli ultimi tre/quattro anni tra Buckingham Palace e Sognando California una serie TV in sei puntate che è un cliffhanger di vittimismo ed autocelebrazione che Evita Peron, scansate!;

un’ospitata milionaria nel salotto più popolare d’America, quello di Oprah;

ennemila puntate in Late Show minori ed ora, beh, come eludere definitivamente l’obiettivo del Grande Fratello se non con un memoriale bomba le cui cinquecento pagine e passa son la versione moderna e incoronata di Oliver Twist? Padre anaffettivo, fratello subdolo, matrigna cattiva, lutti negati e gioventù bruciata …è o non è materiale per un cartoon Disney che si chiuderebbe, però, con immancabile lieto fine?

Ecco, poiché sul lieto fine della diaspora dei Sussex dubito fortemente, no, grazie, come detto sento di aver già dato.

Ma invece di star qui a demolire la novità editoriale del nuovo anno, il sempre fedele Goodreads – l’unico social che non ti fa sentire un boomer senza speranze anche se hai (da mo’) passato gli anta mi informa che nel 2022 ho ingollato la bellezza di 64 libri! Complici il Kindle, che per me è sinonimo di complusione alla lettura veloce, una biblioteca cittadina sempre più fornita e la sempre fruttifera parentesi vacanziera – ad agosto, nelle sole tratte di mare Livorno-Olbia & ritorno mi pare di aver macinato quattro libri – non posso effettivamente lamentarmi della mia Reading Challenge.

Ma ad oggi, cosa ne resta? Al netto di qualche Twingo, parecchie & scattanti Ferrari (cit. BZRP Music Sessions #53 by Shakira).

Da cosa partiamo? Massì, facciamo dai flop, dai, fosse mai che vi risparmi qualche acquisto incauto – e che mi attiri le ire di chi quel testo l’ha amato e lo lovva tuttora tantissimo, e vabbeh. Seguiranno i TOP, che in realtà son stati molti di più di questa frettolosa cinquina. Come sempre, se avete amato o odiato fortissimamente nel 2022…raccontatemi cosa, se vi va.

I FLOP LETTERARI DEL 2022

Un matrimonio perfetto, Sarah Pinborough

Se esiste in letteratura l’equivalente dei Razzle Awards per il cinema questo mix letale di soft porno & giallo di bassa lega entra a pieno diritto nella top ten della categoria. Osceno, in tutte le sue accezioni, e poi prolissooo, noioso, inconcludente.

La candidata perfetta, Greer Hedricks e Sarah Pekkanen

Dopo aver buttato alle ortiche ore preziose per capire dove il legame malato e privo di qualunque logica e credibilità tra la sadica psichiatra newyorkese che individua nella make-up artist squattrinata ma modaiola la candidata perfetta del titolo al suo studio su etica e morale, ve lo posso anticipare così da risparmiarvi l’acquisto: non porta assolutamente da nessuna parte!

Scritto coi piedi, popolato da personaggi avvincenti come bolle d’accompagnamento e razionali come triglie al salmì, una caterva di digressioni di rara inutilità per raccontarci quanto son belle e ben vestite le protagoniste… io davvero non mi capacito come cotanta spazzatura sia stata partorita dalla penna non di una ma di DUE autrici. Sacro Graal!

Il profilo dell’altra, Irene Graziosi

La delicatezza di un centrotavola di gondole veneziane racchiuse in palla di vetro, ‘na cafonata come poche altre (pag 167: “Mi sfilò il tampax e iniziò”) sono per me il segno distintivo di questa pompatissima e acclamatissima opera prima che ci ripropone il sempiterno topos della gggioventù tormentata & ribelle.

Cacofonico, sciatto, tutto ruota intorno alle pippe mentale di inflenZer e amica di influenZer ribbeeelli e tormentate e cattive e autolesioniste. La sinossi che lo accompagna in aletta di apertura, poi, è abbastanza fuoriviante perchè di torbido mondo dei media/social media/social network si parla con la profondità di una pozzanghera in una torrida estate di secca. Il finale, un picco infelicità tra il Giovane Werther e i fratelli Vanzina.

Ecco, qui molti dissentiranno e allora li invito – senza spirito polemico alcuno, anzi – a dirmi perché questo libro sarebbe BELLO.

I TOP LETTERARI DEL 2022

Mai stati così felici, Claire Lombardo

Se mai nutriste qualche dubbio sul fatto che le storie americane (okay: molte, storie americane) sono storie di tutti, storie in cui si entra, ci si accomoda in soggiorni, si partecipa con trasporto alle vicende di queste grandi famiglie disfunzionali sino alla dipendenza… io davvero vi invito a tuffarvi senza rete di protezione in questa stratificata, poderosa indimenticabile saga famigliare.

Non fatevi intimorire dalle quasi 700 pagine perché – credetemi – se il genere è il vostro, punterete sveglie antelucane pur di sapere cosa ne è delle sorelle Sorensen, le cui vite anche adulte tornano e gravitano attorno alla casa di infanzia di Fair Oaks, dove gli amorevoli genitori, David e Marylin, non hanno mai smesso di essere porto sicuro e riparato all’ombra del ginko di famiglia – come evocano le foglie in copertina.

DiesCi, senza se e senza ma.

Portami il diario, Valentina Petri

Arguto, ironico, sagace: non vi sono aggettivi lusinghieri che non siano già stati spesi all’indirizzo dell’ottima Petri e alla sua inimitabile dichiarazione d’amore ai suoi studenti e al suo lavoro di insegnante. Da figlia di & amica di svariati insegnanti, non ho potuto che accompagnare la lettura da vigorosi “sì sì” con la capoccia, né esimermi dal consigliare a tutti ma veramente tutti i miei contatti – da un lato e dall’altro della cattedra – questa lettura che arriva dritta la cuore.

Promossa con lode.

Le verità di Miracle Creek, Angie Kim

La violenta esplosione di una camera iperbarica nella contea di Miracle Creek, in Virginia, dà il via ad un processo per omicidio quantomai coinvolgente: pubblico ministero ed avvocato della difesa sono solo due dei tanti protagonisti che la magistrale Angie Kim, non per nulla avvocato, restituisce con tratto sicuro e ricchezza psicologica superlativa.

Risultato? Un legal thriller dal ritmo serrato in cui ogni singola pagina è un crescendo di climax e una nuova scoperta, ma anche un romanzo di denuncia appassionato che esplora le zone d’ombra della faticosa integrazione sociale delle comunità coreane in nord America, la capacità di reagire ai tracolli, il dilemma tra etica e sopravvivenza, il conflitto tra legami di sangue e giustizia processuale.

Ipnotico.

La casa di Fripp Island, Rebecca Kaufmann

Non conoscevo l’autrice, che tutti raccomandano per il pluripremiato “La casa dei Gunner” e non posso che ringraziare la mia sempre ottima Radiant Orchid che al Salone del Libro mi ha dirottata verso lo stnad della Sur a passo spedito,

Nell’atmosfera indolente e disimpegnata di una vacanza estiva, i destini di due famiglie si intrecciano e si legano indissolubilmente in virtù della morte di uno dei protagonisti che le segnerà per sempre.

Non vanta pretese da novello “Il nome della rosa”, ma si fa amare esattamente per quello che è: una murder story ben scritta e ben congeniata: l’abilità dell’autrice risiede, a mio avviso, nell’aver anticipato sin dalle prime pagine che una morte violenta si abbatterà sugli ignari vacanzieri. Un climax d’attesa pervade infatti poi tutta la storia, ove le dinamiche famigliari sono al centro della narrazione con spunti introspettivi potenti su conflitti di coppia e struggimenti adolescenziali, perché al lettore sorge spontaneo chiedersi chi arriverà al punto di uccidere chi e perché.

Poirot!

Tutto per i bambini, Delphine De Vigan

Ingredienti: una starlette di reality mancata, che diventata madre decide di rifarsi e trasformare i suoi figli, Sammy e Kimmy, in piccole star dei social network; un padre remissivo, incapace di opporsi; la piccola di casa che palesa i primi segni di insofferenza da sovraesposizione mediatica e scompare; una poliziotta fermamente intenzionata a ritrovarla.

Svolgimento: in un thriller ad alta tensione in cui ricerca investigativa e approfondimento sociologico diventano tutt’uno, l’ultimo romanzo della mia scrittrice francese preferita è ancora una volta acuto e intelligente.

E poi che voglia, di farne recapitare una copia alla premiata ditta monetizzatrice della qualunque Fedez&Ferragni!

So this was Christmas…anche se

…anche se la sensazione di essere nata dalla parte giusta del mondo per pura fatalità non mi ha mai mollata: troppi, troppi orrori, torture e repressioni restituite con potenza sconvolgente da immagini che, semplicemente, non puoi cancellare né dalla mente né dal cuore – né tantomeno pensare di annegare nel terzo giro di panettone farcito pistacchio, ecco

…anche se nei giorni antecedenti al Natale, ho toccato vette di sconforto che manco il Monviso e livelli di autostima più sottili della pasta briséé con cui quest’anno non ho – peraltro – rollato i sempitermi croissant salati, vale a dire uno dei due cavalli di battaglia della leggendaria cucina di casa. Cucina leggendaria per restare perennemente intonsa, dico

…anche se ad un certo punto, in certi interminabili weekend dicembrini di apatia e noia, la sensazione palpabile era che il soggiorno di casa – con i suoi lamentosi abitanti – emanasse il calore di una scena del crimine; ma qui c’è da dire che un po’ di suggestione innescata dalle maratone in pausa pranzo di “Delitti sotto l’Albero”, “Vicini assassini”, “Fratelli Coltelli” e palinsento del 9 tutto ha senz’altro contribuito

…anche se a voler frugare nella risacca dei ricordi smorti di questa fine d’anno inquieta, tutto il bello che son riuscita a trovare è condensato nel ponte lungo dell’8 dicembre a Roma – io, la minore e la mater familias, tre generazioni al femminile a macinare kilometri incredibilmente ridanciani e tiepidi (18 gradi!) di sanpietrini vaticani e non; ho pubblicato qualche immagine gastro-turistica, quassù: purtroppo mia madre coltiva un’avversione endemica per le foto pubbliche ed è un peccato perché alcuni scatti che la ritraggono a braccetto a Campo de’ Fiori con l’amata nipote, capi incurvati l’uno sull’altro a mo’ di pini nella foresta, sono quanto di più dolce possiate immaginare; ma poiché arriviamo pure sempre da una tripletta di capponi & panettoni no stop, glicemia a posto così…daje

…anche se poi a farmi ricredere e risollevare un po’ da questo clima di spleen che Evita Péron, scansate! son come sempre i piccoli, insperati interludi di felicità autentica: l’amica di sempre che sceglie per me il bracciale che avevo rimirato con lei in vetrina mesi addietro; la cenetta alle porte con l’altra compagna di risate e vita, dai banchi di scuola al bancone del Todrà; la leggendaria biografia di Tina Cipollari (!) ricevuta in dono da mia cugina, conoscitrice eccelsa dei gusti nazionalpopolari della qui scrivente; maritt’ che nel buio della sala del cinema cittadino, mentre lo schermo rimanda bianchi e neri di una pellicola d’ess…ah, no, del nuovo di Aldo, Giovanni e Giocamo (em), mi prende la mano e la tiene tra le sue sino alla fine del film, uno di quei gesti estemporanei che mi piace leggere come…le parole che non ti ho detto, sempre per restare in tema di lungometraggi mainstream

…anche se una stanchezza strisciante mi resta attaccata alle ossa ormai da ottobre, quando il mio lavoro ha subito un’impennata potente che nell’anno nuovo spero troverà da un lato tregua e dall’altro riconoscimento.

…anche se mi sento un po’ in colpa, a inanellare tutti questi “anche se”, perché è pur vero che mentro scrivo nessun mare scintilla sotto il sole e nessuna bava d’aria tipieda lambisce nessuna spiaggia sabbiosa ma son comunque qui, qui e ora. Un manipolo di affetti solidi e in salute a puntellare le mie fondamenta quando si sgretolano…

e poi, chiaro, una lettura svolazzantepronta per me, sul comodino, e chissà che il piumaggio incipriato di Cinecittà… non serva ad accativarsi l’anno nuovo che verrà!

Wake me up when September ends. E cioè ora.

Del settembre appena archiviato mi limiterò a dire che l’unica gioia – che gioia, poi – è stato il grande successo della mia sempre fornita vetrina Vinted, che complice il cambio di stagione e i relativi saldi, sconti sui set, trattative estenuanti tipo bazar alla Medina (una caratteristica, questa del mercanteggiare, che le aficiodanas dell’App ben conoscono), ha registrato una notevole impennata di vendite.

Ecco. Ho finito.

Null’altro di buono da registrare in un mese che ha segnato il rientro in ufficio e, nel giorno esatto della ripresa, le dimissioni di colei che per quasi quattro anni è stato il mio braccio destro.

Che è proseguito con una serie di sfighe personali che non riesco a non ricollegare a ben più clamorosi patatrac planetari: perché suvvia, cosa ci si può aspettare da un settembre che ci dà il benvenuto con il trapasso di quell’highlander di Elisabetta II, mentre la bellicosa separazione Totti-Blasi tiene banco sulle prime pagine dei giornali di gossip, seguita a ruota da quelle di almeno cinque o sei altre coppie di starlette più o meno note che sempre a settembre pensan bene di imitarli: sarà un trend anche questo, chiaro! E che – facezie a parte – continua con l’inasprirsi delle posizioni belligeranti/deliranti di quella scheggia impazzita di Putin, con ripercussioni catastrofiche sulla povera Ucraina ma ormai anche povera Russia e poveri noi condomini serviti dall’Enel… Ci mancherebbe giusto una crisi di gover…ah no, anche la crisi di governo non s’è fatta mancare e le elezioni del 25 settembre sono andate… come sono andate.

Basterebbe la metà del bailamme nazionale&internazionale a fiaccare gli animi dei più indomiti ma no, qui abbiamo deciso di non farci mancare davvero nulla.

Non bastano dunque gli ordinari sensi di colpa da pedine impotenti di una generazione destinata (evidentemente) a lasciare solo pessime eredità ai propri figli, no.

Ci si mettono i figli stessi, a farci sentire mammiferi incapaci un tempo al servizio della specie, le cui presenze da sempre premurose e instancabili e sino ad oggi skillatissime nel sbrogliare i nodi delle altrui esistenze ingolfate con maestria e pazienza tutt’a un tratto non sono più adatte. Né performanti, né lontanamente capaci di sostenere e figuriamoci capire l’esito di quel triplo carpiato senza rete in quella stagione che ha i contorni liquidi e la consistenza evanescente della (pre)adolescenza.

(immaginetta virtuale dell’urlo di Munch)

Non aggiungerò altro, perché da un lato il promemoria di cui sopra mi è più che sufficiente per ricordare cos’è stato questo settembre da incubo e dunque relativizzare tutti gli altri drammoni che verranno; e dall’altro, perché un giorno a leggere queste pagine potrebbe essere la stessa giovane erede, che non so quanto avrà piacere di sapere che in queste quattro settimane mi si sono prosciugati i dotti lacrimali, ho accumulato debiti di sonno che manco i neogenitori di sei gemelli ed infine ammorbato amici e famigliari sino allo sfinimento acustico (da un certo punto, ovvero da un punto di ripresa, in poi: quando stai troppo, troppo male non riesci neanche a parlar da sola, figuriamoci con gli altri).

La butto in caciara (ci sta!) ma mai come in questo mese ho toccato con mano i miei limiti e la mia impreparazione di madre, che in parte imputo al fatto che il conflitto generazionale che ci teneva così, eam, combattivi & arzilli quando eravamo teenager noi sia ormai un lontano ricordo.

Non solo io – il che è almeno in parte consolante – ma la grande maggioranza dei genitori miei amici vive la genitorialità come me: come un privilegio e una missione di guida, certo, ma anche di sostegno incondizionato verso i propri figli; solo che tra il sostenere e l’annullarsi nel tentativo (errato) di sostituirsi ad un figlio nell’opinabile convinzione che “amare vuol dire aiutare” passa veramente poco.

Ma poco pochissimo.

Non pensi di farlo, ma lo magari lo fai.

E insomma mi son fatta un sacco di seghe mentali esami di coscienza mentre i tipedi tramonti estivi cedevano il passo ai rugginosi colori dell’autunno, e il tutto per giungere all’amara conclusione che esistono disagi profondi e collettivi non ascrivibili alla sola & piccola cerchia famigliare; che, di nuovo, siamo davvero la prima generazione che potrà ricordare una giovinezza e forse una vita più semplice e felice di quella dei propri figli; e poi, certo, che non esistono genitori esemplari di minori perfetti.

Lo sapevo anche prima, certo. Ma un conto è averne idea, un conto è toccarlo con mano.

Ciò detto: ottobre, mi senti?!

No perché…mi aspetto grandi cose da te. Sappilo!

SBAM! Covid, poké e letture estive shakerando, shakerando…ma anche no.

Edit vacanziero. Questo post di fine luglio era tra la bozze un paio d’ore prima di partire per il mare. Incredibile ma vero (o forse un regalo di compleanno dall’etere?) WP me lo ha salvato e così ripropongo, alle dieci di una pigra serata estiva in quel di Grosseto, spalmata sulla sdraio sul patio, fili d’erba fra le Hawaiianas, una tavola blu cobalto sulla capoccia e il piccì sulle ginocchia. Ma chi m’ammazza? Ed anche: ma davèro davèèèro sabato si torna alla base? A I U T…

Ripetiamo ordunque tutti insieme e a gran voce: mai, mai, mai lamentarsi quando il cosmo sembra congiurare contro di noi – l’epico Saturno contro di Ozpetekiani fasti. Le cose potrebbero andare ancora peggio!

Detto e fatto (lamentarsi, dico), cosa non succede a un paio di giorni dalla pubblicazione del post sulla grossa grisi che, a conti fatti, poi tanto grossa non era?

Ma ovvio, vogliamo forse farci mancare l’ultimo trend dell’estate? Che ovviamente non è quel latrato strozzato di Shakerando, shakerando, con tutto il contorno ballerino/non ballerino dell’ennesimo trapper dall’ego ipertrofico, naaa: il vero trend stagionale & trasversale è la nuova variante Covid, la Omicron non-so-più-che-numero, a cui manco con queste temperature beduine si scampa più.

E insomma dopo essercela sfangata grazie a vaccini, mascherine e indubbia dose di cu*o per ventiquattro mesi, a questo giro la famiglia Koala tutta s’è arresa. Il primo (molto) positivo è stato maritt’, seguito a ruota da me ed infine dalla minore, che per sua fortuna è sempre rimasta asintomatica. Ora, lungi da me fare terrorismo sanitario ma, per quanto mi riguarda, un sonoro “Alla facciazza della variante BLANDA!” posso solo esclamarlo a gran voc…ah no.

Prima deve ritornare, la voce.

Febbre alta per quattro giorni, gola in fiamme, ossa a tocchetti e quando finalmente i sintomi più vigorosi sembravano smorzarsi per cedere il passo ad una dose di stanchezza endemica che manco Varenne al decimo giro di campo… che non vogliamo prendercela, una bella botta finale di congiuntivite, che per noi allegri portatori di lenti a contatto è peraltro una doppia condanna?

E del clima da deserto del Gobi che intanto distillava sudore anche dalle cuticole dei capelli, ma vogliamo parlarne, signora mia?! In tre in 90mq senza condizionatore? Ovviamente uscir vivi dal Coviddi in quelle condizioni era impensabile e grazie all’ausilio salvifico della mater familias, a metà degenza un panciuto Pinguino, unico interstizio di refrigerante sollievo in cui infilarsi in un generale clima di spleen cosmico, ha fatto ingresso in casa, istruzioni comunicate dal pianerottolo dietro porta socchiusa, FFP2 ben salda sul naso; alla vista del tecnico, qualche lacrima di commozione negli occhi – che intanto cominciavano ad arrossarsi, modello coniglio albino.

Ma insomma anche questa è andata. Le scadenze di lavoro incombono per marito – per me scadenze non pervenute nel senso che lavorando con l’internazionale, come diciamo in ufficio, di scadenze non ce ne sono, perché ce n’è una ogni giorno: e poi ce ne restano mille, esatto; approfittando dello stato di prostrazione generale, la minore ci ha intanto estorto la promessa di una vacanza-cazzeggio-studio in UK tra dodici mesi esatti; le valigie sul letto prima di un lungo viaggiooo (magari) occhieggiano minacciose e dunque, raccogliendo le poche stille di linfa vitale rimaste in corpo dopo un luglio che sempre dalle mie parti al terzo piano si definirebbe sfidante, un brevissimo wrap up fotografico del mese.

  1. Cosa si fa quando si rimane positivi e bunkerati col solo ausilio del Pinguino De Longhi per quasi quindici giorni? Ma ovviamente si ricama. Acciambellati sul divano imbottito, perfetto peraltro per disperdere altri sali minerali se i 40° interni/esterni non bastano. Il nuovo pannello che vedete abbozzato è in tema jungle, ma la mia grande soddisfazione è quello, in tema Colazione da Tiffany, incorniciato in tempo per il compleanno della mia amica di sempre. Seguiranno altre foto…da qui al 2023, daje.
  2. Avrei preferito celebrare la liberazione dal virus con un Pink Martini ma è andato bene anche un parco poké, consumato con una certa commozione (la prima uscita dopo due settimane di clausura!) insieme alla minore in Via Accademia delle Scienze.
  3. vabbeh: Pink Martini no ma bubble tea sì.
  4. Dicevamo, le valigie sul letto: già che vorrei viaggiare leggera, vuoi non infilarceli tutti, ma proprio tutti i nuovi acquisti libreschi che vedete sullo scaffale?
  5. sì, certo che sì. Meglio un caftano sgalcino che un lettore sguarnito è il mio motto quando si tratta di vita spiaggiata Ah, nel dubbio ho fatto incetta di download anche sul Kindle ma soprattutto di prenotazioni online via SBAM, l’immaginifico sistema bibliotecarlo che ti consente di prenotare una caterva di titoli da tutte le biblioteche della tua area metropolitana per vederteli recapitare fisicamente nella tua biblioteca cittadina, una email a segnalarti finestra temporale per ritiro, scadenza prestito etc. Riconsegna titolo: sempre dalla tua biblioteca cittadina, che provvederà, nel caso, a restituirli a quella di appartenenza. Più comodo di così, forse solo il mio prossimo oggetto del desiderio, la poltrona pouf a sacco sfoderabile, toh.
  6. Dulcis in fundo, per qualcuuunooo è tempo di tormentate scelte di scuole superiori, perché in terza media la preiscrizione è prevista entro il primo quadrimestre. Vogliamo forse esimerci dall’esprimere il nostro non richiesto parere, ma facendolo in maniera sottile (vabbeh: ‘nzomma) e velata (idem) ovvero rituffandoci noi stesse nella lettura di manualistica poco poco referenziale? Ma no, prima che mi denunciate al Telefono Azzurro per molestie intellettuali…GIURO che avevo davvero voglia di un ripasso giocoso e leggero. Che il libro è in effetti godibilissimo, che tuttavia non costringerò la minore ad avvicinarlo. Non vuoi manco aprirlo? Bene, liberissima di non farlo. Vuoi aprirlo? Bene, venti euro e mascara di Sephora per te in arrivo.

E dalla genitrice de-covizzata ma sempre sclerata il giusto, that’s all, folks!

Edit. Ci si rilegge prossimamente con il wrap up di agosto: giusto il tempo che le mie falangi tornino ad essere operativi e non piccoli porceddu panciuti e scarlatti dopo un simpatico morso di tafano sull’avambraccio, qui in spiaggia in Toscana, che più veloce degli amorazzi estivi della svizzerotta sempre ridente, mi ha scatenato un’altrettanto simpatica reazione allergica. Risultato: il memento della prima parte di vacanza made in Sardinia è ancora qui con me in terra etrusca (ah, l’amore) sotto forma di avambraccio, polso e dita simil-porcellino arrosto non commestibili e scarsamente performante. Yep.

Not living my best life. E i 40° all’ombra non aiutano.

Not living my best life, lately – rispondevo ieri ad una collega svedese che invece è in vacanza in Sicilia e tra teatri greci e granite in riva al mare sta avendo un great time, awesome places, delicious foodarimortacci no?

Crisi di governo, crisi Totti-Blasi, crisi idrica, crisi di chi fa smart senza condizionatore a casa (presente!), vogliamo non metterci uno straccio di crisi esistenziale amche noi, scusate? Ma no, certo che no.

E così alle mie lamentazioni modello Evita Péron II, domenica (a Bardonecchia, 1300 m, 26 gradi celsius di beautitudine almeno per un dì) l’amico Fabio rispondeva sollevando ironico il sopracciglio “Mai sentito parlare della crisi do mezza età…?”

Ecco, credo quello sia stato il colpo di grazia dopo quello che mi è sembrato un weekend eterno, complice il sottofondo incessante di pensieri limacciosi che normalmente non faccio, o meglio ho imparato a sotterrare nel fango con discreta destrezza.

Ecco, ultimamente non più. Da qualche giorno i pensieri bui m’investono e mi travolgono con la violenza dell’aria bollente che soffia verso il marciapiede dai bocchettoni su Via Roma, angolo Benetton, alle 15.00 di un qualsiasi pomeriggio di questo luglio sahariano. E tu sudi e arrossisci e sbuffi e lì per lì credi che perderai i sensi, nonostante l’iced caramel macchiato da 750 Kcal nella mano destra, e magari c’hai anche lo zainetto portapc carico sulle spalle col cambio abito, così, per dire.

Fattostà che il tuo livello di felicità è quello di una serata disco-nostalgia di provincia con il ballo a plachetto che però tutti han disertato.

Un po’ come quando la love story del momento, ma che tu credevi di sempre, chiaro, s’arena e sei tu quella a disamorarti o comunque a mettere la parola fine: stai male, malissimo, perché col cavolo che solo la parte lesa sta male – se hai un briciolo di coscienza, se l’affetto è rimasto, se sai per certo che per la controprate sarà una picconata sulla capoccia, allora starai male doppiamente, perché starai male per il male in sè ma anche per aver causato del male…vabbeh, esperienza di vita vissuta, anche se qui non c’entra niente – però, dicevo quando una certa epoca, una certa storia è oggettivamente arrivata al capolinea, nascondere la testa sotto la sabbia è impossibile.

L’evidenza del tutto ti si spiaccicherà comqunue in faccia con la grazia di un tornado e la penna leggera di Dagospia. Magari non sarà una faglia sismica sotto le infradito, ma il vuoto cosmico della piazza deserta del ballo al palchetto sì.

(Si intuisce che in una vita precedente di balli al palchetto ne ho bazzicati tanti? Sì, eh?)

Ma insomma al momento la mia verve è quello di una busta vuota che danza nel vento nel parcheggio del Conad, rendo l’idea? In balia degli eventi, incapace di bloccare i pensieri, le labbra increspate dall’amarezza che si sollevano in tirati sorrisi di circostanza – anche perché sono perennemente attorniata da persone, il leit motif della mia vita da eremita mancata – senza che però gli occhi le accompagnino davvero.

Come in una fotografia sovraesposta, contorni e immagini di quel che sarà la tua vita ti appaiono, dall’oggi al domani, incerti e sfalsati. Tu che di norma vedi il bello anche nell’etichetta nutrizionale del Muller bianco percepisci chiaramente di avere, al momento, la stabilità mentale di Elon Musk.

E allora butti giù queste poche righe sconnesse, perché dar voce ai propri pensieri ti sembra voglia dire mettere ordine un po’ ai pensieri stessi, che al momento razzolano impazziti come galline sull’aia prima del temporale.

Mentre le parole del tuo amico risuonano implacabili e così dannatamente azzeccate, tant’è che è impossibile non soffermarsi e pensare che intanto però a questa benedetta/maledetta mezza età tu ci stai arrivando, seppur arrancando malamente: il tuo migliore amico, colui che hai amato come un fratello minore, colui al quale corre il pensiero un giorno sì e l’altro pure, si è fermato molto prima.

Perciò altro che Totti e Blasi, qui c’è gggrossa gggrisi.

Oddio, nulla che un Americano ben dosato non riesca a stemperare almeno un pochetto, chiaro.

Nell’attesa, Starbucks e Polase. Sognando California. Sognando anche solo, boh, un temporale.

Generazione di fenomeni 3.0 edition

Non è solo una frase d’autore che nel gergo pallavolistico designava le eccellenze maschili della nazionale anni ’90;

non è neanche soltanto la leggendaria canzone degli Stadio del lontano 1991, né (boomer, sospirate con me) la sigla di una contemporanea e meravigliosa serie di Rai 2, direi la Beverly Hills 90210 de noiartri, visto che ruotava attorno alle vicende amorose di un gruppo di liceali romani, intitolata “I ragazzi del muretto”.

No, “generazione di fenomeni” è anche e per me soprattutto un attualissimo e nutrito bestiario di wannabe fuoriclasse moderni, un campionario di esaltatissima fauna umana che l’esimio Foster Wallace non esiterebbe a fare oggetto di una delle sue monografie, dopo quella dei croceresti.

Non so voi, ma io ultimamente sono circondata, da Fenomeni.

Li incontro con la frequenza con cui incrocio il corriere Amazon e li patisco come patisco la peperonata la sera dopo ‘na certa: nel loro vuoto cosmico dimentico di contegno e senso della realtà, non tutti ma una buona parte mi stanno decisamente indigesti, proprio come la peperonata nottetempo.

Ma approcciamoci dunque con spirito di etnografo e lente dei RIS alla mano alla disamina di questa grande e convintissima comunità – comunità al 90% maschile, stando alle mie ricerche sul campo: il Fenomeno che conosco io non sa che farsene, del low profile e di quello spirito di understatement peculiarmente femminili. Anche se qualche Fenomena, ovviamente, c’è; noi diremo Fenomeno per dire Fenomen*, ecco.

Il Fenomeno è convinto. Anzi, convintissimo. Orgoglione – che sì, fa rima con altro -one -, logorroico, incontenibile e inspiegabilmente certo che l’ego ipertrofico che si porta appresso a mo’ di torcia olimpica sia per il prossimo motivo di ammirazione se non di autentica invidia.

Avete presente la pagina IG del “Milanese Imbruttito?”

Ecco, diciamo allora che l’idea di base è quella, però pompata a livelli iperspaziali. Ma davvero una buona fetta dei Fenomeni che conosco saluta con “Ué, grandissimo/a!” solo perchè non si ricordano il tuo nome, mica per altro, ti elenca tutti i suoi sbatty e va immancabilmente di frettissima – magari a tagliarsi le unghie degli alluci, ma di frettissima.

Il Fenomeno nostrano, tuttavia, si contraddistingue non tanto per il lessico, quanto per i contenuti; contenuti che arrivano talora già di prima mattina, in filodiffusione dagli speaker dell’automobile quando la tua monovolume zigzaga in modalità pilota automatico verso l’ufficio, gli occhi incrostati di sonno, unico obiettivo: sopravvivere sino a sera.

Il Fenomeno invece no, il Fenomeno si sveglia già carico come una dinamo, performante come una confezione di Foodspring doppio cioccolato, pronto a conquistare il mondo e piantare la sua bandiera in vetta al K2. Lo intuisci da come parla, dal fuoco di fila di domande (Come va, che fai, dove vai, novità, weekend??) a cui però se sei fortunato non devi neanche scomodarti a rispondere: risponderà lui per te, esemplificazione perfetta del “me le canto e me suono”, che poi son quasi divertenti, questi monologhi, un’alternativa pittoresca a Radio Deejay e comunque sempre più piacevoli di un acufene, toh.

Il Fenomeno pensa di essere oggetto di ammirazione – e non di post ridanciani su WordPress – perché, beh, perché sostanzialmente è ricco. Ricco in senso materiale, e cioé nel conto in banca e nel suo palmares di latin lover: il Fenomeno ti delizia con i suoi successi lavorativi e con le sue conquiste sentimentali – okay, togliamo sentimentali; il Fenomeno guadagna i paperdollari e frequenta le mejo squinzie; il Fenomeno ha sempre qualche prenotazione vacanziera all’attivo – se breve a Ibiza anche se Formentera è meglio, se più lunga in qualsiasi città/nazione che faccia rima con parco di divertimento per adulti abbienti.

Il Fenomeno ha naturalmente amici Fenomeni ad alto tasso di riccanza che lo invitano per il weekend a Saint Tropez sul mega yacht – ma qui non è fondamentale che te lo racconti perché in effetti la sua pagina IG, che tu scrolli tutte le mattina per fare il pieno di buonumore e spunti ciarlieri tipo questo, è un mosaico di sorrisi sbiancati sui tender tra le onde del Mediterraneo, dell’Egeo e prossimamente su qualche atollo del Pacifico.

Il Fenomeno è prestante, ma sul come non sottilizziamo: se nelle medesime foto il nostro etnografo noterà un mix sospetto di pelle color cuoio innaturalmente tesa, nervature sui deltoidi e avambracci da Popeye disegnati da vene in rilievo e si chiederà se frutto di dieta proteica? palestra? crioterapia?…ecco no, la rispostà sarà: filtri instagram a manetta senza pudore e senza vergogna. Ma quel che conta è il risultato!

Il Fenomeno così come l’ho descritto è in realtà la sommatoria algebrica dei tanti Fenomeni che ho incrociato sul mio cammino negli ultimi lustri – e che per inciso maritt’ si ostina a definire “simpatici”.

Ecco, sul fronte simpatia potremmo aprire un altro capitolo, ma non vi voglio così male. In soldoni, il mio punto è che tutte le caratteristiche di cui sopra, di per sé, non fanno di un Fenomeno una cattiva o spregevole persona: tuttalpiù, una pittoresca macchietta da film di Verdone.

Ciò che fa proprio implodere le mie coronorie, quando ho a che fare coi Fenomeni, è il fatto che 8 volte su 10 questi uomini e donne che per come si raccontano “non devono chiedere mai” tipo pubblicità del Denim Musk, ti chiedono invece favori su favori ma attenzione: dipingendoli come TUE fantasmagoriche opportunità di fama, guadagno, successo, crescita personale e pubblica e compagnia bella.

Io, che pure so di sembrare svaporata, per anni ho tagliato corto per arrivare al punto. “Ah Tizio/Caio/Semproni*, non girarci intorno: cos’è che vuoi da me?” e realizzato….aum, vediamo…curricula (a iosa), profili aziendali, tesi, tesine, traduzioni, script per siti internet e per editoriali, testi per inserzioni a pagamento, per sonate, balalte e tarantelle (okay tarantelle no), dispense per corsi fai da te, libercoli (anche per parenti, ma lì a chiedermelo non era un Fenomeno bensì mio suocero, che di fenomenale ha solo la ricetta per la pasta spada & pistacchi) e ancora, recensioni, ruriche off e online e molto altro che credo di aver rimosso per mancanza di giga sull’hard-disk.

Il punto è che tutte questo cose uno (io) le fa anche volentieri, se gli riescono facili e lo divertono; dirò di più, lo fa con autentico piacere per amici e persone care.

Ma per un Fenomeno, che ti promette in cambio mari e monti, ti inonda di partole vuote quanto la scatola cranica di Gianluca Vacchi, ti dice “ahhh, un talento come il tuo vedrai come lo rilancio ioooo“, “ah, ma qui si fa il botto sicurooo” e poi manco un caffé al bar converrete con me che tutto ‘sto gran trasporto non c’è.

Ormai da tempo, ho deciso che io non voglio essere la colf sottopagata di nessun Mr Enjoy – e lo so, non c’è da vantarsi, ma sì, ho guardato quella cafonata di Mucho Màs; però lasciatemi spezzare una lancia a favore della produzione di Prime per confermare che non c’era nessun motivo per rimuoverlo, trattandosi di documentario (?) che non parla assolutamente di N U L LA, vedi alla voce *scatola cranica di. Di contro, regala allo spettatore tanti begli interni da sogno, fuoriserie cromate, cene stellate, prati all’inglese e divertenti ballett….ah, no.

Ma insomma. Di generazione di fenomeni, per me, ce n’è una sola. E ordunque intoniamo insiemeE.

Generazione di fenomeni, siete voi

Generazione di fenomeni, tutti eroi

Generazione di fenomeni, come noiiiiii

Misto fritto senza gamberi (che non ho mai imparato a sgusciarli)

Leggevo su non so quale rivista di cui ho fatto man bassa durante il primo, sospirato break estivo – la tradizionale settimana di fine giugno nel grossetano, tradizione ahimé destinata a svaporare prestissimo visto che tra un anno, a quest’ora, la minore sarà impegnata negli esami di terza media (Mom needs a drink, esatto!) – che la pandemia è un po’ come la vecchiaia: una cartina di tornasole della nostra indole, che migliora se è pacifica e peggiora se è malmostosa.

In effetti non ci vuole Freud per intuire che l’esplosivo mix di chiusura forzata & limitazione individuale non può che mettere in risalto e forgiare la santa pazienza e lo spirito (diciamolo pure) di sacrificio delle persone miti e concilianti; di contro, un petulante irascibile non riuscirà a contenersi e darà sfogo a tutto il suo malumore. Malumore peraltro contagioso, proprio come il Covid.

Ora, io che faccio dell’understatement non la mia bandiera ma pure il mio intimo, la tshirt, i jeans e il cappello a tesa larga simil Borsalino, non ho esitazioni nell’asserire che avrò sì, mille limiti e altrettanti difetti, ma decisamente non lesino in quanto a provviste di pazienza. Spirito di sopportazione formato XXL. Volontà di conciliazione degna da ambasciatrice ONU. E via discorrendo. e no, Camy, non sto flexando 🙂

Tutto questo pippone d’apertura per dire, molto semplicemente, che dopo aver tenuto le redini da inizio anno di un decoroso menage familiar-social-lavorativo, finto sordità a tutte le fattispecie mendeliane di pettegolezzo, frecciate e strali assassini, tenuto a bada le ansie della mater familias che, porella, di recente non scoppia certo di salute, e ancora, appianato ogni sorta di contrasto con la serafica calma che manco il Mahatma Gandhi… sono arrivata all’alba del sospirato 18 giugno, sospirato addì della partenza, con il brio di una camera ardente e la flemma di Vlad l’Impalatore.

La verità è che, proprio come la protagonista dell’ennesimo teen drama che ho iniziato a seguire su Prime con la minore (L‘estate nei tuoi occhi: melassa allo stato puro tratta da young adult, diciamo una storiella leggera di formazione sul primo amore, il primo cuore infranto e la magia di un’estate perfetta ove si salva giusto la location, una lingua di oceano immaginaria ispirata a Cape Cod e Martha’s Vineyard, due tra le mete che torreggiano nella mia bucket list di viaggi da sogno, ndr), anche io misuro sostanzialmente il tempo in estati: autunno e inverno, freddi e brumosi, non sono che l’arduo passaggio obbligato che mi separano dalla primavera, stagione molto amata in quanto preludio della luminosa, briosa, disimpegnata estate – non aggiungo calda ché quest’anno non è il caso.

E insomma il mio umore da Grinch, per cui all’ennesimo: “Kiara, ma non è che hai visto i miei calzini/top/ombretti/prescrizioni/ciabatte/testa…?” i familiari hanno seriamente rischiato la pelle, aveva un gran bisogno d’estate, d’estate in vacanza, però: anche se solo di un pugno di giorni che volano via più veloci della mio PIN bacomat in tempi di saldi… questi per me son giorni salvifici.

Perché torno ad essere me. A spazzare via stanchezza e preoccupazioni per sorridere di genuino buonumore che sventola indisturbato al tempo delle bandiere di Kite Beach. Ad annuire anche quando magari nel retrocranio una vocina mi suggerisce luciferina: “Ma che fai, non dissenti?” No, grazie, proprio no: preferisco assentire. E godermi l’attimo.

Abbandonarmi a scrosci di risa irrefrenabili dopo grigliate sotto le stelle annaffiate da Tennent’s e vin santo con amici che in pratica vedo solo una settimana l’anno ma in quella settimana mi godo a tutto tondo. Spensieratezza e relax rotondo e puro. Profumo di costine alla brace e sogni a forma d’anelli di calamaro dorati e scrocchiarelli. Colori turchino, salvia e zafferano di Maremma, kiters dai 15 ai 65 anni e colazioni indulgenti alle undici di mattina coi piedi sulla sabbia mentre la stanchezza e il malumore si disfano via come pelle morta dopo la prima tintarella metà sole e metà ombra.

Di questa settimana in particolare ricorderò, sì, il relax così indolente da rasentare la catatonia (ho letto un solo libro, anche se imponente – lo vedete in foto – e questo per una che in spiaggia rifugge il sole e macina romanzi è significativo) ma anche l’umore luciferino della Pagnottella addì 22 giugno 2022 alla vista della sua torta di compleanno mentre le prime note di “Tanti auguri a te” si diffondevano dalle casse collegate allo smartphone in spiaggia: tanta, troppa gente ad applaudire i suoi 13 anni tra i tavolini del bar di Karolina:

e dunque quale miglior occasione per dare il là a questa zavorra ostinata di reticenza e malumore che è parte integrante del pacchetto “teenager”?

Quando abbiam visto la nostra (un tempo) piccola dar le spalle alla torta panna e fragole, il viso solcato dal disappunto, e rifugiarsi in riva al mare, credo che maritt’ ed io abbiamo realizzato in contmporanea e con non poco horror vacui che l’età della fanciullezza, dei sorrisi sornioni e delle coccole no stop se n’è definitivamente andata. Eclissata. Scomparsa. Boom!

E dunque un motivo in più per benedire il fatto che, quantomeno, eravamo in vacanza. Circondati da amici ed amichetti capaci in tempo zero di farle (e farci) tornare il sorriso.

A distanza di un paio di giorni vorrei tanto poter dire che gli effetti benefici del break continuano, ed in parte è così. Ritornare dai miei genitori, ritrovarli in forma nonostante l’età, nonostante gli acciacchi, nonostante tutto, già non è scontato e lo so, me lo dico e me lo ripeto – e me li voglio godere e portare fuori a pranzo.

Restano da mandar giù piccoli sorsi di amarezza, minuscoli distillati di scortesie, forse leggerezze, che però non t’aspetti e per questo fan male un pelino di più.

Mi dico da sempre che devo imparare, alla mia veneranda età, a rispondere non male, ma con la stessa moneta e puntualmente disattendo il proposito. A questo giro, invece, penso di aver iniziato.

Non so se si può andare proprio orgogliosi di aver abbassato di qualche tacca il proprio livello di (proverbiale) indulgenza, ma al momento mi congratulo da sola. Ché coi tredicenni la pazienza non è solo gradita, ma vitale, ma cogli over 45 anche no. O no?

L’assedio. Prove empiriche di sopravvivenza a una primavera sfidante

La vedete quella collezione di guance paffute lassù?

Tralasciando Cami, che ormai conoscete, gli altri concentrati di tenerume si chiamano Mira, Danelo e Yari. Hanno rispettivamente 9 mesi, 2 e 4 anni, ma qualche mese in meno quando sono arrivati nella mia città a marzo di quest’anno da Leopoli, Kherson e Mariupol.

Mentre la propoganda russa lanciava implacabile missili e menzogne, le loro giovani mamme e nonne smantellavano vite intere da mattina a sera; sullo sfondo di scheletri anneriti di città un tempo ariose e luminose, salutavano tra le lacrime gli uomini di casa per salire a bordo dei pulmini organizzati dai salesiani della scuola di Cami; pulmini che attraversando Italia, Austria, Ungheria e Slovacchia sino al confine di Vysne Nemecke e ritorno, provavano a restituire ai profughi uno scampolo di respiro.

Serenità certamente no, con la guerra che tuttora ci assedia con i suoi boati, con i volti scavati degli uomini al fronte, con quel pianto di neonata nel gelo della metropolitana di Kiev – un’immagine che, insieme a quella, inenarravile, delle fosse comuni del Donbass – è forse quella che mi s’è infilata più a fondo nel cuore, emblema di sin dove può spingersi la follia di un dittatore paranoico.

Da marzo di quest’anno, la vita stessa sembra aver poggiato il piede su un acceleratore impazzito cui io personalmente non riesco più a star dietro; la vita galoppa mentre io m’affanno al trotto, talora anche al passo, toh. Troppe cose e troppo grandi e gravi per metabolizzarle ed affrontarle.

Ma alla guerra no, alla guerra che ci bussa da vicino non si può restare indifferenti.

Sarà perché scortando Cami a scuola ho avuto modo di conoscerli, i piccoli Danelo, Mira, Yurij, con le loro mamme Olena, Nina, Marjana…sarà perché accompagnadomi ad Almira, la mia amica russa (russa: e in prima fila nel supporto ai profughi della nostra città, nota bene), le barriere linguistiche sono cadute ed ho così guadagnato anche io la fiducia e l’affetto di questa piccola comunità, lontana nella geografia d’origine (Mariupol si trova a 1.200 km da Leopoli, che è come dire da Catanzaro a Trento), accomunata da una tragedia nazionale ma soprattutto compattata da un comune obiettivo: farcela.

Apprendere i rudimenti di una lingua che mai avrebbero immaginato di dover masticare – c’è una rete a trama fitta sapientemente ordita di volontari che mattino e pomeriggio radunano gli ucraini in gruppi e tengono lezioni sempre più partecipi e interattive; acquisire abilità manuali magari spendibili più avanti; garantire ai ragazzi e ai piccoli una primavera non dico serena, ma sicura: sono queste le attività che occupano quotidianamente le giornate di quelli che oramai Almi ed io chiamiamo “i nostri amici ucraini”.

Che andiamo a trovare quando possiamo, spesso la sera quando io termino lo smart e allora lei passa a prendermi con la sua station wagon argentata, il cui bagagliaio risponde a misteriose leggi entropiche per cui, per quanto stracolmo di borse di giocattoli e vestiario, non è mai veramente così pieno.

C’è sempre lo spazio anche per le mie, di borse, ed è così che alla viglia di Pasqua (la nostra: loro avrebbero celebrato una settimana più tardi la Pasqua ortodossa) abbiamo improvvisato un brindisi alla pace con pizzette e Prosecco. Estratti un po’ tiepidi dal bagagliaio magico, consumati tra abbracci e lacrime – di sfogo, di paura, di commozione ma anche di affetto.

Perché ci si vuole bene a vicenda, ormai. Si festeggiano compleanni, si regalano smalti e trucchi, ci si racconta di figli e nipoti (e qui sorvoliamo sul fatto che a raccontarmi della nipotina sia anche una nonna mia coetanea…), si partecipa se si può alle tante iniziative di beneficenza del sempre efficente corpo salesiano.

Camilla mi segue raramente ed è un peccato perché sarebbe un ottimo corso accelerato di educazione civica: la realtà è che (effettivamente) due o tre dei teenager ucraini son proprio carini e allora lei, che sta sgusciando via dall’infanzia a velocità di acceleratore di neutrini, si imbarazza un po’. E’ un peccato, ripeto, perché per quel che mi riguarda la mia limitatissima, insignificante, microscopica attività di volontariato è forse anche l’unica che sento, in questi mesi, di poter definire “sensata”, nel senso di portatrice di senso, di valore.

Il resto è tutto abbastanza un caos (manco tanto) calmo.

Piove un weekend sì e l’altro pure e quindi in campagna, dove di norma trovo pace da giornate tiranneggiate da scadenze e impegni, si va pochino; con grande rammarico di Cami, perché i cugini-vicini ospitano una nuova cucciolata mai abbastanza sazia di coccole & grattini. O viceversa;-)

Nonostante i ritmi impazziti e il carico mentale a mille (o forse proprio in virtù di quelli), attraverso inspiegabilmente una fase di lettura bulimica. Leggo la sera prima di dormire e riprendo la notte quando mi risveglio; tra marzo e aprile penso di aver macinato otto o nove libri. Di recente la mia attenzione libresca è rivolta ad un altro tipo di follia, quello della politica “Zero Covid” di Xi Jinping, con decine di milioni di cittadini del Celeste Impero nuovamente reclusi a mo’ di topi da laboratorio con una formula di lockdown implacabile e militaresco davvero degno del peggior regime.

Ed è quindi con un moto di tenerezza che, pochi giorni fa, mi son ritrovata a sfogliare un improbabile raccoglitore ad anelli datato 1993, un reperto (decisamente) d’epoca religiosamente custodito a casa dei miei. Un reliquiario Cartiere Pigna, ecco. Contiene disegni e bozzetti di scarsa qualità ma genuino entusiasmo di un’epoca della mia vita in cui avevo tempo anche per disegnare…oltre a studiare, leggere, scrivere su non uno ma tre diari condivisi, dare ripetizioni, ricamare, innamorarmi, disamorarmi, fantasticare, uscire e insomma guardare al futuro con genuino slancio ed entusiasmo.

Ora come ora, lo slancio è un po’ quello di un canguro morto; poi però mi guardo attorno (e davanti, dietro, in alto, in basso) e realizzo che non posso lamentarmi.

“Yari, manda un bacio a papà!” gli dice la sua mamma.

E Yari apre il palmo, appoggia la bocca e allunga la mano al cielo, perché il suo papà non c’è più, perché il suo papà è uno dei molti, troppi caduti senza colpa nel Donbass.

Ansia sociale e inquilini di Gotham city: la FOMO si perpetua ed io ne ho le prove

Quando iniziai a frequentare Daniele, nel lontano settembre 2005 e nel leggendario segno del “No ma…niente di serio!”, a colpirmi del futuro consorte furono due caratteristiche che essendo da me molto distanti, mi incuriosirono come uno scimpanzé pigmeo e mi attirarono come un magnete al neodimio, in virtù della sempreverde legge per cui gli opposti che si attraggono (ma si respingono anche, come i magneti, certo).

Anyway.

La prima era l’abilità degna di cabarettista di Broadway di cogliere caratteristiche psicocomportamentali della colleganza tutta – nascevamo colleghi anche noi – e di riprodurle, il venerdì sera postlavorativo e preweekendaro al Caffé delle Scienze, con un combo di imitazione vocale & gestuale in una caratterizzazione così precisa e raffinata da farti sputare il tuo mohjito propiziatorio dal naso (ogni fatto o riferimento…) in preda a crisi di riso impossibili da contenere. Per la cronaca io, in vent’anni di onorata carriera corriera mi sono giusto specializzata nella replica approssimativa dell’inconfondibile parlata cantilenante in inglese indiano, il famoso Hinglish, dei colleghi dell’helpdesk di Hyderabad.

La seconda e ancor più caratterizzante peculiarità del mancato cabarettista era questa sua, em, come dire? refrattarietà ad archiviare qualsivoglia legame sociale per conservare, di contro, rapporti di conoscenza risalenti ai tempi del Pliocene: dal compagnetto dell’asilo all’amichetto del parco-avventura con cui era capitato di smezzare un Ciocorì a sei anni nell’estate dell’82, tutti, ma davvero T U T T I, nello sterminato albo amicale & ancor più mastodontica rubrica telefonica di maritt’, conservavano e tuttora conservano un angolino dedicato e un moto di tenerezza quando gli capita di ricordarli e risentirli. E cioè spessissimo.

In quell’inverno del 2005 già un po’ hollywoodiano di per sé – la guardinga Turin City in pieno fermento si apprestava ad accogliere il grande boom turistico collegato alle Olimpiadi invernali, con il centro città normalmente algido e austero scoppiettante 24/24 di stand, eventi ed emittenti televisive – camminare per strada mano nella mano con Daniele significava percorrere una sterminata passarella in cui sfilavano quasi esclusivamente comparse a lui note. “Ciao Tizio!” “Ehi Caia? Tutto bene? E tua sorella? Il cane…?”.

A me, ragazza più di campagna che di città, che facevo un vanto nel poter dire che sì, okay, conoscenti ne avevo a iosa ma gli amici veri su contavano sulle proverbiali dita della mano, l’impressione era quella di essere stata catapultata in un universo lontano e alieno.

Perchè, sia chiaro, le frequentazioni maritali non si limitavano certamente solo a questi, em, retaggi storici, ma ricomprendevano anche – soprattutto – un esorbitante numero di amici-amici. Scettica come solo chi a giorni alterni sogna di ritarsi a) a Gotham City o b) nella campagna non astigiana ma finlandese, ove il concetto di vicino di casa prevede boschi da attraversare e fiumi da guadare/su cui schettinare, per molto tempo ammetto di aver dubitato che una sola persona, peraltro occupata al lavoro otto ore al dì, potesse mantenere viva cotanta vita sociale, ma soprattutto chiamare “amico” così tante persone.

Col tempo, mi sono ricreduta. Per maritt’, le interazioni sociali – vedere gente, parlare con la gente, far cose con la gggente, e più ce n’è, meglio è – vengono davvero al primo posto (e qui invito tutti ad un momento di silenzio: potete vagamente immaginare quale fosse il suo umore, e di conseguenza il mio, durante il primo, drammatico, totale lockdown? Mi dico sempre che se non ci siamo salutati allora – alla presenza dell’avvocato, dico – non ci scollerà più niente).

Se costretto a farlo – costretto da me, dico – in realtà sa distinguere anche lui chi sono gli amici-amici dai semplici conoscenti, i coprotagonisti dalle comparse.

Resta il fatto che se volevi fare un torto a maritt’, ai tempi bastava rivelargli che Tizio, Caio e Sempronio si erano giusto visti il weekend prima per provare quel nuovo local…e ops, aspe’, non ne sapevi niente, arggg? Parlo al passato, però, perché negli anni quella che ha anche un nome tecnico (FOMO, Fear of missing out, paura di essere tagliati fuori) ha lentamente ma costantemente ceduto il passo ad un approccio alla socialità molto più contaminato dal mio zen.

C’è senza dubbio il tempo degli amici, delle rimpatriate, della convivialità, ma non posso smettere di credere che lo si apprezza veramente solo se a quello si alterna il tempo per la solitudine, la placida vita di famiglia/solitaria, le serie cringe su Netflix sbriciolando Toblerone l’introspezione, ecco. Diciamo che con gradod i convincimento diverso, adesso ne conveniamo entrambi.

Entrambi…ma non la minore!

Eh già: se credevo di aver archiviato tra i ricordi polverosi di gggioventù gli episodi – altrui – di ansia sociale collegata al non volersi perdere nemmeno un’unghia della social life de noiartri... Camilla mi conferma ogni giorno di essere degna figlia di suo padre.

Tanto mi assomiglia fisicamente, tanto il carattere è uno sputato copia&incolla delle idiosincrasie paterne.

L’ho realizzato un paio di weekend fa, quando tutta la sua compulsività da FOMO-girl è deflagrata di fronte all’inammissibile: un suo amichetto aveva organizzato una imperdibile serata pizza&Risiko, le sue amiche erano state invitate e lei … NO!

Giuro di aver asciugato calde lacrime e disseppellito memorie delle mie scuole medie da paria nostrano inviso pure ai bidelli e all’orologio da parete (occhiali da vista, apparecchio fisso, fisico informe e stigma tra gli stigma, figlia di una Prof!) che avrei volentieri lasciato languire per due o tre sere consecutive.

E proprio quando sembrava l’avessi persuasa che l’adolescenza è un periodo critico, perché fa ruotare l’autostima attorno al gruppo dei pari, ma unico è bello, non essere invitati a tutte le uscite, tutte le feste e non essere amico di tutti ma risultare invece spigoloso a qualcuno è perfettamente normale, e anzi distinguersi e autodeterminarsi è cool

l’amichetto ha invitato anche lei.

Al che padre, che chiaramente soffriva ma doveva farlo in sordina, e figlia si son battuti il cinque intonando le note di A E I O U Ypsilon ed hanno convenuto che l’occasione richiedeva un nuovo paio di Nike-non-so-che-modello “perché, dai, T U T T I le portano ormai!“.

Io comunque l’ho presa benissimo e infatti sono alla ricerca di voli solo andata per Rovaniemi.