

Non so da quanto tempo mi riprometto di tornare su questi schermi e di tener traccia del nuovo che avanza; ma ad occhio, croce e ragnatele, vi direi dal glorioso 29 agosto, quando di ritorno da delle insperate, godibili vacanze estive culminate con una meravigliosa tre giorni in Umbria, mi sono appuntata di concedermi un break tra una lavatrice e l’altra e di provare a tradurre in parole l’ineffabile sensazione di pace che mi ha regalato Assisi, con le sue cattedrali dalle facciate pulite e lineari rifinite con pietra bianca e rosa, quasi a voler riflettere il candore dei santi che le popolarono. E poi di tradurre in parole il sapore sublime degli strangozzi alla norcina e delle pappardelle al ragù di lepre, certo.
Com’è evidente, non ho fatto nulla di tutto questo e mi ritrovo invece nel primo giorno di questo autunno zoppo [voglio essere ottimista, ma un po’ particolare questo autunno lo sarà] a fare i conti con una minore che non ha propriamente reagito beniiissimo al passaggio alle scuole medie.
Va premesso che il lockdown e la famigerata DAD, almeno per quel che è stata la nostra esperienza, non ha aiutato: disabituata a gestirsi dei tempi fissi e strutturati, i lunghi mesi confinati nella sua cameretta le han lasciato questa sensazione di indolenza ed apatia avvinghiata alle ossa sicché adesso già solo puntare la sveglia alle 7.15 è un piccolo trauma.
Aggiungiamoci che undic’anni è, notoriamente, un’età infame: né bambino né adolescente, né piccolo né grande, né carne né pesce: la Pagnottella alterna momenti in cui non fa nulla per nascondere che le mie parole e quelle di suo padre sono poco più di un fastidioso ronzio nelle orecchie e noi due nabbi fatti e finiti [un giorno porterò tutto in lavanderia e dedicherò un post al nuovo slang della generazione Y, quella dei figli delle nuove tecnologie drogati di e dei social, promesso] a serate quasi imbarazzanti, in cui magari siamo fuori a cena e lei, stanca, mi si rannicchia in braccio a mo’ di baby koala (!) scoccandomi bacini sul collo tra gli sguardi perpliti dei commensali. Bellissimo, eh, per carità, vorrei che tutta questa fisicità non si esaurisse mai: ma davvero alle volte mi chiedo se non sono finita dentro un episodio distopico di Black Mirror, ecco!
La scuola media, dicevamo. Abbiamo ponderato parecchio la scelta della scuola, a suo tempo, decidendo di orientraci su questo istituto pubblico a gestione privata ed indirizzo internazionale esattamente in virtù di queste sue caratteristiche: da una parte la retta mensile (male) che ti consente, volendo, di lasciare i pargoli sino alle 18 (bene), dall’altra la possibilità di assistere a lezioni di materie, principalmente scientifiche, in lingua, di frequentare laboratori, di sorbirti beneficiare di ore extra di conversazione.
E dunque, dopo aver investito in libri di testo e materiale scolastico l’equivalente di una Kelly di Hermès vintage, caricato le spalle – prima le mie, poi le sue – di uno zaino dal peso atomico dell’uranio, addì 15 settembre la minore ed io abbiamo varcato baldanzose i cancelli della nuova scuola. Superato un check point ove abbiamo provato di non avere febbre ma solo mani pulite & mascherita chirurgica ben calcata sul naso, ci siamo separate dopo il canonico appello iniziale.
Camilla, che già sapeva essere in classe con tre compagni delle elementari, tra cui un’amichetta rodata, ha scoperto che in totale sarebbero stati 28. Che non conosceva nessun altro. E – questo a pranzo, a casa, con voce strozzata e uno sguardo vitreo modello Laura Palmer rediviva – che non aveva memorizzato neanche il nome di un professore. Che era finita nel banco singolo dell’ultimo angolo dell’ultima fila, al polo opposto o quasi rispetto all’amica A. Che non aveva scambiato parola con anima viva. Che non aveva fatto l’intervallo. Che non sapeva come si chiamasse il suo compagno di destra e davanti. Che per andare ai servizi da allora in poi era opportuno non aspettare l’intervallo ma, causa norme antiCovid, alzare la mano durante la lezione “facendo una figuraccia, perché nessuno ancora ti conosce e già tutti ti guardano“. E via discorrendo.
Alla sera, dopo essersi trascinata inerte per casa con la vitalità di un cetaceo arenato mentre io peraltro lavoravo al PC e non potevo quindi neanche incoraggiarla più di tanto, gran finale con crollo sul letto a mo’ di stella marina schiantata e calde lacrime onde rimarcare il concetto: “Voglio tornare alle elementariiiii!!!”
Ora. Penso che chi mi legge lo intuisca e chi mi conosce lo sappia sin troppo bene, eam: sono una strenua, indomita, battaglierissima sostenitrice dell’uso senza parsimonia e senza confini dell’ironia e del sarcasmo. Non solo perché regalano un po’ di brio a una narrazione che diversamente magari suonerebbe austera o monocorde, ma perché ingredienti capaci di modificare la percezione stessa della realtà. Un ottimista – ed io lo sono, inguaribilmente – guarda alla vita attraverso lenti diverse rispetto a quello di un pessimista. Chi fa dell’ironia, o meglio ancora dell’autoironia, si ritrova a ghignare da solo sotto i baffi anche quando magari nessun altro indossa manco l’ombra di un sorriso. [Poi ci sono tragedie di fronte alle quali è impossibile anche solo proferir parola e ne so qualcosa: proprio il 15 settembre, quando Camilla si disperava per la mancata socialità di classe, la mamma della mia amica B. si spegneva per sempre. Per dire.]
Ma insomma, questo per dire che anche questa volta – visto che si poteva — l’abbiamo provata a risolvere con il metodo montessoriano e illuminatissimo di casa: buttandola in caciara.
Spiegato e convenuto che il suo era un duplice trauma – un po’ c’è il salto dalle elementari e alle medie, la novità del tutto e okay, ma dall’altro ci sono le restrizioni imposte dal Covid, che dopo un po’ intaccherebbero la tempra di una testa di cuoio ma che numi volendo, prima o poi cesseranno – sia io che suo padre ci siamo dilungati nei racconti, un po’ romanzati, dei nostri “primi di prima media”.
Che poi per la verità su di me, undicenne occhialuta e paffutella figlia di una temibile prof di lettere operativa nella mia stessa scuola & dispensatrice di certi disturbanti kilt scozzesi sotto il ginocchio – c’era ben poco da romanzare: aspettative allo zenit da parte dei docenti suoi colleghi, sguardi in tralice dai compagni di un po’ tutte le sezioni ancor prima di aver proferito verbo. Per non farmi mancare proprio nulla, alla conta si aggiungeva anche l’omonima compagna bulletta che mi aveva presa di mira e che – udite udite – abitava nel mio stesso palazzo, ergo mi pedinava in compagnia dei suoi sfottò e di un manipolo di seguaci per tutto il tragitto a piedi verso la scuola & ritorno.
Vi dico solo che dopo tre minuti di racconto Camillozza si era già ripresa. Non solo: incapace di trattenersi oltre, ha circumnavigato il tavolo della cucina, mi è venuta accanto e mi ha sussurrato, gli occhioni acquamarina velati di lacrime di solidarietà retroattiva: “Povera mami! Chissà che BRUTTA GIOVINEZZA, la tua! Ma sappi che se fossi stata in classe con te, non ti avrei mai sfottuta, anzi ti avrei difesa e saresti diventata LA MIA MISSIONE!”
Ma insomma. Questo per dire che la prima media ai tempi del dopo Covid è iniziata un po’ in salita. Ma che, come osserva un’amica amante delle ruote, la strada è sempre fatta di salite ma anche discese, strapiombi ma anche collinette.
E adesso mandatela buona a me, che domani rientro in ufficio, two days a week, e non mi sento poi così diversa dalla bambina col kilt daltonico tallonata dall’altra Chiara dalla lingua acuminata.
“ad occhio, croce e ragnatele” 🙂 sei sempre molto “incisiva”!
L’inizio delle scuola media è come muoversi in un mondo sconosciuto e ha bisogno di un periodo di assestamento. Camilla, forte del Dna materno, supererà tutto brillantemente.
Ciao Kiara, un abbraccio affettuoso! 🙂
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E come sempre, hai colto nel segno. Il COVID, poi, è una difficoltà che s’assomma alla difficoltà. Però sì, dai, io continuerò ad esercitarmi a sdrammatizzare e la nana imparerà a vincere la timidezza e alzare la mano per usare i servizi, ogni tanto 😀
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in bocca al lupo a Camilla!
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