


Il post di oggi, nonché probabile post del mese vista la mia (inesistente) assiduità su questi lidi mi frullava in mente da un po’.
Poi però, vuoi perché il lavoro in piena tax season mi assorbe con la protervia con cui il mocio risucchia il risciacquo del parquet, vuoi per i dodici (D O D I C I) colloqui docenti di fine anno (chi in video, chi in presenza; chi in pausa pranzo, chi in orario caffé prima dell’inizio delle lezioni, ché qui non ci facciamo mancare nulla. Che soddisfazioni, però!) ho lasciato arenare l’idea tra le sinapsi sempre più provate. Alle volte, restitendomi l’eco del nulla cosmico.
Poi capita che una sera a cena l’amica E. mi chieda se conosca Tizio, cugino di Caio, genitore montano di un’amica della figliolanza. Le spiego che sì, conosco o meglio conoscevo bene soprattutto Caio perché ex fidanzato della sorella di un ex (vi siete persi? perfetto, meno dettagli riconducibili a fatti & persone potenzialmente querelanti dissemino, meglio è) e a riprova della passata frequentazione sfodero FacciaDiLibro e il primo piano all-in su Caio.
E prima ancora di osservare che Caio non è invecchiato per nulla, ma no, neanche un filo di grigio fumo di Londra tra i riccioli chiari, ma neanche noi in effetti lo siamo, ci difendiamo alla gran… l’occhio cade su un suo post di qualche tempo addietro, in cui Caio immortala e tagga il mio ex con fulva progenie al seguito.
Sbadàm! Mentre amica E. commenta che “Oh, bel tipo!” il mio cuore ha un sussulto, ma proprio uno scossone tipo montagne russe all’imbocco dell’anello capovolto: e no, non è un rigurgito di ammmòre….è un rigurgito e basta!
Mi fa effetto rivedere colui che nei miei sogni di ventottenne (parliamo di ere glaciali fa, esatto) sarebbe diventato il padre dei miei figli, il grigliatore della domenica & l’autista unico di una station-wagon, mi fa strano vederlo padre di un figlio (altrui), mi dà fastidio soprattutto ricordare che è da tanto, troppo tempo che voglio metter nero su bianco queste due considerazioni ad muzzum a mo’ di incoraggiamento solidale per tutti coloro i/le quali stanno soffrendo per ammòre.
POI PASSA. Credetemi: anche se vi sembra impossibile, anche se in questo momento il vostro cuore sanguina come un arrosticino abruzzese infilzato dopo scarsa cottura…il dolore passa. Ci vorrà un po’, e nel mentre con ogni probabilità pescherete nel fondo degli abissi della disistima, magari riducendovi ad appostamenti notturni degni del peggior investigatore di noir francese; parlerete di lei/di lui sino all’annientamento acustico dei vostri interlocutori, direte magari no alla pasta e ai tiramisù, o magari direte di sì a troppa pasta e a troppi tiramisù, ma….passerà. E la vita vi mostrerà che la contabilità dell’ammòre non chiude sempre in passivo. Anzi!
Come lo so? Mettetevi comodi e lasciate che ve lo racconti.
- L’inizio, Woman in love (Barbra Streisand)
Quanti Grandi Amori si contano nella vita di un essere umano? Ho amiche capaci di elencarne un almanacco modello Frate Indovino e altre che categoriche : zero, non ce n’è covidd...em, non esiste l’ammòre!
Ecco, nella mia personalissima esperienza, al netto di tutte le storielle diciamo sotto i mesi, io oscillo tra il due e il tre.
Sul numero uno vacillo perché fu il vero, primo ammòre e solo in quanto tale occupa un posto speciale nella mia memoria a lungo termine – ed io nella sua: decenni dopo, un matrimonio fallito alle spalle (non con me, eh), il numero Uno si ripresentò alla mia porta per mostrami la mano sinistra priva di fede. Non so quale fosse esattamente l’intento, ma in compenso ricordo bene il responso: “L’articolo non mi interessa, grazie!“, modello auf wiedersehen, venditore Folletto senza appuntamento! Il terzo, toccando ferro, è l’attuale e spero imperituro marito in carica, nonché compagno di vita, speranze e cialtronerie varie da ormai sedic’anni. Quindi un numero Tre in cronologia ma un numero Uno da tutti i punti di vista – non da ultimo, la stoicità con cui regge i miei continui scioperi dei fornelli & piadina days.
Resta insomma da fare i conti con il numero Due, che per comodità chiameremo il kebabbaro, in virtù della professionale, inflessibile mano con cui fece, ai tempi, straccetti di carne fumé del mio cuore insanguinato.
Il kebabbaro, di diec’anni più grande di me, bazzicava nella mia stessa compagnia astigiana quando contavo venticinque primavere, un armadio di top e minigonne di dubbio gusto ma soprattutto una capacità di reggere l’alcool degna di studio monografico. Erano i primi anni 2000, e se eravamo sopravvissuti al Millenium Bug, potevamo forse vacillare al terzo bicchiere di Keglevich alla fragola ingollato sulle note degli Alcazar..?!
Ma insomma succede che una sera, fuori dal locale in cui si arenavano i due terzi delle nostre serate, il kebabbaro ed io iniziamo a parlare. Non ci eravamo mai scambiati più di un saluto ed invece quella sera, vuoi perché il cielo di dicembre era una lastra perfetta di blu puntinato da una miriade di stelle, vuoi perché al terzo o quarto shottino il freddo s’era tramutato in una specie di abbraccio caldo e liquido che agevola la prossimità mentale e fisica, chiacchieriamo per un bel po’. E prima di salutarci, ci scambiamo gli indirizzi e-mail.
Come novelli Tom Hanks e Meg Ryan (C’è posta per te era uscito nel 1998, ndr), a neanche venti km di distanza diamo vita da una corrispondenza più offline che online, corrispondenza che quasi subito si trasforma in un invito ad uscire. L’invito in un bacio, il bacio in un qualcosa che inizialmente fatico molto a chiamare storia o, giammai!, relazione: il più coinvolto è decisamente lui, che peraltro ha appena lasciato la sua fidanzata antecedente e ne soffre per procura (lo so, lo so: quanti campanelli d’allarme ignorati, me tapina). Il distacco iniziale è tale per cui quel Capodanno non rinuncio, anzi mi godo dall’inizio alla fine, il viaggio già in agenda a Vienna con l’amica di sempre M., ospiti di uno svalvolato viennesse con una pericolosa propensione alla zuppa di cipolla, che ci propina a parnzo, a cena e in occasione di uno dei Capodanni più surreali, divertenti e indimenticabili di sempre. Un giorno magari (nel 2030) gli dedicherò un post.
Purtroppo, come spesso accade sulla bilancia dell’ammòre, non passa molto che l’equilibrio tra i due piatti si inverta: di ritorno da Vienna, rincitrullita da un paio di dichiarazioni ad effetto, dai primi pucciosissimi regali di Natale, dalle telefonate quotidiane con cui kebabman si sincera che io sia arrivata sana e salva sul posto di lavoro (all’epoca ero stagista nelle Risorse Umane di una multinazionale a 80km da casa ma soprattutto ubicata nelle lande della nebbia), nell’arco di un paio di settimane da scettica e tiepida mi ritrovo totalmente rincretinita e cotta a puntino.
Il mio cuore batte a ritmo di rave party ogni volta che il suo numero retroillumina il display dello Startak Motorola; se non lo vedo per più di due giorni inizio a palesare segni incontrovertibili di crisi d’astinenza; tutto ruota intorno a lui, al sentire lui, al vedere lui, è una vita kebabbaro-centrica che tanto mi ha ricordato quell’amore tossico di cui Arisa ha cantato quest’anno a Sanremo, o di cui la Lucarelli ha così ben raccontato in un podcast a puntate in cui paragona certi tipi di amori sghembi ad una tossicodipendenza.
2. Il proseguo, Rollercoaster (Emis Killa)
Perché il punto proprio questo. Non c’è nulla di male (anzi: è meraviglia allo stato puro) nell’essere totalmente presi di una persona…quando si è corrisposti. Le crepe s’insinuano quando appare evidente che la storia non è più bilanciata, che una delle due parti è diventata succube o quantomeno a rimorchio dell’altra.
E il kebabbaro, dopo aver scardinato ogni mia remora ed incertezza, regalato emozioni che non credevo appartenessero a questo mondo, conquistata come Cristoforo Colombo conquistò l’America….come una nutrita fetta di Maschi Alfa, semplicemente, iniziò ad avercene abbastanza.
A distanza di anni (ma parecchi, anni) ammetto che la bionda con le gote arrossate che ti rimira con lo sguardo appannato di un cocker spaniel al momento delle crocchette qualunque cosa tu favelli, fossero anche le previsioni meteo per il weekend, non ha tutto ‘sto gran fascino; come non ne ha la ragazzina che noleggia una videocassetta una volta a settimana per trascorrere la serata insieme, ma nella serata che decidi tu e quando vuoi tu. Che non fiata quando una domenica, dopo una grigliata sgangheratissima, vede planarsi una ciabatta sullo zigomo destro, ciabatta lanciata per dispetto e senza motivo alcuno, e non dice beh. Perché chi l’ha lanciata è una sua amica, amica di lui, dico, e nella sua corteccia prefronatale, quella preposta al ragionamento e al giudizio, la ragazzina sente di dover già solo esser grata di prender parte a quel barbecue in quella domenica – perchè quelli sono i suoi amici, ma WOW! E lei è stata ammessa nella loro cerchia divina! AriWOW! Perciò pazienza se sono sono hippie cinquantenni con cui si fatica a parlare d’altro che non siano Simon&Garfunkel, pazienza se di fronte a loro il kebabbaro fa fatica a prenderle la mano! Ma mettiamo su un 45′ e facciamoci un altro Brachetto, no?!
E ancora, che appeal avrà mai la tua fidanzata se si sforza di non far caso alla brunetta tutte curve che, ad una festa all’aperto, ammiccante gli allunga un bigliettino, che lui sornione s’infila in tasca. (“Amore, cos’era?” “Mmmm…niente”. “Ah, ottimooo!”). Che piange in silenzio modello Evita Péron quando un’altra volta, al rientro da una gita in moto, scoppia una discussione ed allora il kebabbaro la molla lì, in mezzo alla piazza del (suo) paese, a 20km di casa, rigagnoli sul volto e casco Nolan con orecchie da orsetto appiccicate con le ventose in mano.
Per più di due anni, la mia impressione è stata quella di vivere sulle montagne russe. Bastava un nulla per toccare il cielo con la punta del naso, bastava un nulla per sfiorare terra e irrazionalmente temere di schiantarti. Il problema è che con certe relazioni tossiche finisci per schiantarti davvero: io per esempio ho davvero preso un muretto di cinta dopo un appostamento notturno sotto casa su…em, vabbeh!
Ma insomma, e scherzi a parte. Ci sono storie che fanno bene, e storie che fano male. E quando una storia diventa così dispari non può che far male, anzi malissimo.
3, La fine, Wake me up when September ends (Greenday)
Più che “Svegliami quando finisce settembre”, io quell’anno sognavo: “Svegliami quando finisce questro stramaledetto agosto!”. Il mese del mio compleanno, dell’anguriata di ferragosto, dei tramonti di luce ambrata sul mare e dei falò al chiaro di luna: il mio mese preferito in assoluto si era trasformato nel peggiore dei miei incubi, chiaro presagio di una fine ormai vicina.
Quell’estate, infatti, in una lectio magistralis di zerbinismo, quando dopo due anni la storia imbarcava più acqua del Titanic sottocoperta, pensai bene di tentare il tutto per tutto e di prenotare una vacanza insieme. L’ultima, vacanza insieme…ca va sans dire.
La meta (ma che ve lo dico a fare?) per la verità la scelse lui. Se io sognavo sabbia color borotalco ed acque turchesi al profumo di frangipane, il kebabbaro giustamente scelze Lanzarote: 250 km di coste asprissime a bordare paesaggi lunari spazzati da venti implacabili tra le gole riarse, spiagge laviche (e quindi di sabbia nera, un tocco di classe sulle chiappe pallide) incuneate tra la roccia, stradine ritorte tra vitigni collinosi e silenziosi paesini di pescatori.
Col senno di poi, Lanzarate è probabilmente anche molto affascinanate e carica di un’energia tutta sua, primordiale e selvaggia. Purtroppo io dell’isola ricordo solo il clima di spleen che aleggiava sulle nostre colazioni in albergo a Puerto del Carmen (un ecomostro di rara bruttezza, peralto), l’umore immancabilmente cupo (intonato al paesaggio, pensavo allora) del kebabbaro, il fatto che pur di non far conversazione con me, si fosse tuffato nella lettura di tutti i libri che avevo stipato nel trolley. Uno, il delizioso “Me parlare bello un giorno” di Sedaris, vorrei solo dirvi che mi chiese di poterlo avere in prestito per finirlo dopo esserci lasciati…ma sorvoliamo! E ancora, come dimenticare una desolata cena di compleanno in una marisquerie in un paesino di pescatori lungo Costa Teguise, un vistoso orologio dal cinturino rosso estratto con trepidazione al momento del dolce dalla scatolina che io credevo contenesse altro (AHAHHAHA).
Camerero, una otra ronda de sambuca, por favor!
E adesso arriviamo al gran finale. Rientriamo da Lanzarote e a beneficio del kebabbabro faccio sviluppare tutte le foto vacanziere (ah, i mitici rullini Kodak) che ad imperitura memoria spiaccico su due album identici con tanto di didascalie e ghirigori. Il kebabbabro ringrazia e sparisce. Si smaterializza. Evapora, tale e quali ai fumi del vulcano Timanfaya.
In quei giorni di silenzio implacabile, io vivo accartocciata in pigiama tra letto e divano. Nel mentre ho cambiato lavoro e per fortuna la nuova sede dista pochi minuti da casa: per fortuna, sì, perchè per tutto il tragitto lavoro-casa e ritorno, i miei occhi sono un fiume in piena di lacrime e singulti e la mia guida sulla Peugeot 206 è un susseguirsi ansimante di sussulti, sbalzi e rantolii. Un po’ miei, un po’ del motore.
La ciliegina sulla torta, però, è chi lascia chi, quantomeno sulla carta: avete puntato milioni di Bitcoin su un finale che pare scontato…? Maaaale! Perché dopo settimane di telefonate agonizzanti e mezze confessioni estorte con i mezzi più lacrimevoli (tra cui una magistrale: “Non sei tu, sono IO. Se sto senza vederti uno, due, tre, cinque giorni non mi manchi. MAGARI al sesto giorno però sì…” (e che è, il lotto sulla ruota di Asti?) sono io a scendere dal suo pickup ove un tempo sognavo di affastellare cani, bambini e mobilia Ikea e sbattendo la portiera, una sera di fine estate, mettere la parola fine a ‘sta storia d’am tortura cinese.
Come anche i muri delle vostre cucine avranno capito, tuttavia, la vera lasciata ero io.
L’ennesima incobenza, quella più greve, quella del lasciarsi, era ricaduta su di me. Che mi ritrovai così, quella sera di settembre 2004, a risalire in casa e versare tutte le mie lacrime sul pullover del mio povero, incolpevole padre. L’immagine di me abbarbicata a mio papà sul divano, volto paonazzo e singhiozzi sincopati, mentre lui mi accarezza i capelli e in piemontese prova a sdrammatizzare: “N’autra vira andrà mej…“, la prossima volta andrà meglio è un’immagine che porto stampigliata sul cuore da ormai quasi vent’anni. E che decisamente ha preso il posto di tutte le cicatrici collocate nei pressi.
Il punto è che soffrire dopo un post operatorio, soffrire per un male (curabile, ecco) è un conto, ma soffrire per ammòre è qualcosa di lancinante per cui non esistono antidolorifici che tengano.
Per sei mesi ho pensato che quelli del RIS mi avrebbero ritrovata tra gli incarti dei kinder. Per sei mesi ho parlato di lui e con lui (la notte, in sogno) financo con il parcheggiatore del Dì per Dì e con le divinità indiane. Incapace di concentarrmi sul lavoro, incapace di svicolare dall’unico pensiero monotematico (mi ha lasciata! mi ha lasciata!) la sensazione era quella di essere un ingranaggio rotto, con arti d’argilla e un cuore infilzato a mo’ di spiedino. Di kebab, per ovvie ragioni.
Eppure. Eppure ne sono uscita. Eppure sono tornata dapprima ad accennare sorrisi e poi a ridere a tutto tondo. A credere di nuovo nell’Amore, e a trovarlo, dodici mesi dopo, in un volto luminoso ed una gestualità avvolgente. La mia terapia sono stati gli amici, i dolcissimi amici di allora, che la vita ha un po’ allontanato ma il ricordo no, e che ai tempi hanno saputo tessere attorno a me una sorta di rete di salvataggio fatta di affetto, presenza e coinvolgimento, tipo tendone elastico di quelli che stendono i pompieri sotto i palazzi in fiamme, e che io usai per cadere, riposare e infine trovare lo slancio per ripartire ancora. Diciamo anche che la vacanza friends only ad Ibiza l’estate dopo aiutò parecchio, ndr. 🙂
Ma insomma.
Per gli indomiti che son giunti sino a qui, il mio messaggio è: gagliardi! Ci vuole coraggio, a sorbirsi tutto ‘sto papiro di Amunnakht! Ma anche…e soprattutto: l’amore sa essere un intrigo di curve a gomito, ma anche una distesa lussereggiante di bellezza e speranza.
Mai, mai smettere di crederci, anche dopo aver sofferto come cani sulla piazzola di sosta: arriverà un’altra famiglia e un altro giardino, e sarà più bello di prima.
E’ il mio augurio per tutti voi, ma per un paio di voi in particolare ancor di più.
Come direbbe il sommo poeta (mio padre, ovvio): Ai suma capì😉