

In questo ultimo biennio abbastanza distopico, la carta stampata mi ha tenuto una compagnia senza uguali. Secondo la Reading Challenge di Goodreads, ambiziosamente settata sui cinquanta testi annui, non solo ho raggiunto il traguardo entrambi gli anni ma l’ho addirittura superato: 56 libri letti nel 2020, altri 56 nel 2021. Ullallà.
Lungi dal pensare che questi numeri mi ammantino di una qualche aura pseudoletteraria – lo dice anche l’Istat, che tutti abbiamo letto tendenzialmente di più, in tempi di pandemia – ho comunque sorriso parecchio sotto i baffi quando, ad inizio anno, si è scatenata un’infuocata polemica a colpi di tweet perché qualche ignaro lettore ha ardito usare la piattaforma per tirare le somme delle letture macinate nell’anno appena archiviato. Orrore! Abominio! Ubris! Indimenticabile il Tweet di tale @moopkid da cui poi la polemica è espolsa, assumendo contorni tra il grottesco e il fantozziano:
“giudicare qualcuno da QUANTI libri abbia letto in un anno è una pu**anata. io potrei aver letto 3 libri, tu 40, ma io mi sono letto il manifesto del pc, lavoro salariato e capitale e la condizione anarchica, tu la saga di geronimo stilton. è la stessa cosa? no”
Ma non flexare, stai calmo bro… sarebbe il serafico commento di mia figlia, che è poi in soldoni il sentire – e il twittare – della maggior parte di chi s’è preso la briga di investire tempo ed energia nell’articolare una risposta al Robespierre di Karl Marx, dando vita appunto ad un botta e risposta tanto eterno quanto sterile. Io non ero tra quelli, ca va sans dire. Ero impegnata a leggere Paperinik.
Ma venendo a noi e a quella copertina stratopica, ops, volevo dire, strabella che occhieggia quassù: ho appena archiviato un tomazzo di quasi settecento pagine che m’ha allietato le serate/nottate negli ultimi dieci giorni. Un romanzo ipnotico, meraviglioso, dallo storytelling articolato e assolutamente accattivante.
L’ho appena recensito su Goodreads e vorrei farlo anche qui, fosse mai che qualcuno fosse in cerca di spunti di lettura. Non so se s’è capito, ma ne sono entusiasta.
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C’è un motivo per cui la narrativa nordamericana mi attira a mo’ di cane pavloviano e per me curiosa come una scimmietta quel motivo risiede nel fatto che nessuno ti spalanca la porta di casa quando un autore a stelle e strisce: ci avete mai fatto caso?
Sicuramente sì. Nella letteratura come nel cinema e nelle serie, otto volte su dieci avverti potente e magnetica l’energia di una storia che diventa presto anche un po’ la tua, di storia.
Impossibile non pensare a un “4321” di Auster, con le quattro sliding doors delle quattro possibili vite di Archie, o correre col pensiero alle notti insonni di binge watching ingordo che una saga famigliare televisiva come “This is us” innesca nello spettatore, presto ipnotizzato dalle travagliate vicissitudini della famiglia Pearsons tanto da non riuscire a premere sul tasto stop.
Ma veniamo a “Mai stati così felici” e alle mie cinque stelle entusiaste: se ancora nutriste qualche dubbio sul fatto che le storie americane (okay: molte, storie americane) sono storie di tutti, storie in cui si entra, ci si accomoda sul pouf in soggiorno, si partecipa con trasporto alle vicende di queste grandi famiglie disfunzionali sino alla dipendenza… io davvero vi invito a tuffarvi senza rete di protezione in questa stratificata, poderosa indimenticabile saga famigliare.
Non fatevi intimorire dalle quasi 700 pagine perché – credetemi – se il genere è il vostro, punterete sveglie antelucane pur di sapere cosa ne è delle fantastiche sorelle Sorensen, le cui vite anche adulte tornano e gravitano attorno alla casa di infanzia di Fair Oaks, dove gli amorevoli genitori, David e Marylin, non hanno mai smesso di essere porto sicuro e riparato all’ombra del ginko di famiglia – come evocano le foglie in copertina.
L’autrice, di cui si stenta a credere che sia il primo romanzo, gioca abilmente da un lato sullo sfasamento dei piani temporali, con un plot elaborato che scivola agile su e giù lungo le linee del tempo e dall’altro sul continuo cambio di prospettiva di quelli che risultano protagonisti a tutto tondo, una fauna di comune eppure eccezionale umanità consegnatoci con dialoghi vivaci e tratti rapidi ma molto evocativi, in una perfetta sintsei del sempreverde vademecum del bravo scrittore anglosassone: “Show, dont’ tell”.
Wendy la ribelle, Violet l’individualista, Liza la generosa e Gracie l’immatura sono particelle subatomiche con cariche respingenti – conflitti irrisolti, rivalità di fondo, idiosincrasie caratteriali – che pure non smettono di cercarsi, attraendosi e respingendosi, entrando ed uscendo dalle reciproche esistenze imperfette, e sempre con quell’uscio di casa socchiuso a beneficio del lettore, che finisce presto per innamorarsi un po’ di ciascuna di loro.
Personalmente, il personaggio che ha fatto breccia nel mio cuore, strappandomi non poche lacrime, è David, il patriarca – una figura accogliente e remissiva in cui mi sono rivista a tratti e che conosciamo impacciato mentre fatica a scendere a patti con la dimensione placida della vita domestica di neopensionato.
Ci penseranno le sue figlie, con il loro bagaglio XXL di drammi, segreti e conflitti – a ridare vita – e non pochi grattacapi – all’ex medico di famiglia, in un crescendo di pathos tanto articolato quanto verosimile che si srotola attraverso i decenni e che ti conquista, con la celebrazione poderosa della forza senza pari dei legami di sangue.
DiesCi, senza se e senza ma.
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Si dice che capisci di aver letto un buon libro quando giri l’ultima pagina e ti senti come se avessi perso un amico: ecco, io da ieri sera mi sento profondamente orfana.
Perciò, se anche voi avete consigli di lettura sulla scia di quanto sopra… non lesinate, ecco.
Che piacere rileggerti, Kiara. Come sempre hai l’argomento giusto per strapparmi un sorriso. Penso che dopo la “schermaglia” su Twitter, l’antagonista si sia ritirato in buon ordine.
Viste le tue eccellenti doti letterarie, hai mai pensato di scrivere un libro?
Un abbraccio
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Ma ciao Anto, è un piacere anche per me rileggerti e sapere che stai bene. Eh sì, il twittarolo è stato letteralmente sommerso di bordate ma la schermaglia mi ha dato da pensare: a volte si legge roba leggera per scelta e non per incompetenza – capita di avvertire proprio un bisogno fisiologico di lettura d’evasione!
E….non sei il primo (ma sei il secondo: ahah, numeri che parlan chiaro) che mi suggersice il libro. Troppo buono, troppo buono: confess, sarebbe un sogno che accarezzo da tanto, ma abbandono per mancanza dei due ingredienti fondamentali: 1) tempo; 2) …talento;-)
Piuttosto, però: altri rimedi per combattere l’insonnia, oltre al ricamo e alla lettura notturna? dai dai suggerisci tu che senz’altro sei ferrato.
E un abbraccio innevato!
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rimedi? incomincia ad abbozzare il tuo libro….però non so se a letto si scriverebbe bene. Quanto a talento….ne hai da vendere! 🙂
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