Giorno 50: apologi, lacrime e mascherine nel verde

E fu così che al cinquantesimo giorno quella routine da VillArzilla fatta di riunioni via Zoom e budget costruiti a suon di tazze di Nescafé, ricerche su Sepulveda buonanima e Menenio Agrippa oratore (l’apologo sul Monte Sacro! E chi se lo ricordava?), gimkane serali verso all’area ecologica in monopattino e ricami su tele degne di quella di Penelope e ancora, conoscenza enciclopedica del palinsesto Netflix e scorpacciate di libri seconde solo a quelle di Nutella – comford food per antonomasia in tempi di pandemia – iniziò ad andarci stretto.

E dire che era iniziata così bene!

A inizio marzo, quando ero a casa in smart già da fine febbraio, quindi già ben calata nel pigi…, em, nella parte, si può dire mi fossi infilata in questa nuova modalità di segregata ON con una certa rilassatezza mista a rassegnazione: un po’ come si scivola in un paio di UGG, per capirsi: comodi, avvolgenti ma soprattutto solo il prologo della bella stagione che verrà.

Con il passare dei giorni, però, la stanchezza ha iniziato a farsi sentire. Perché non servono zuccherosi editoriali di Gramellini per spiegare che se prima dell’emergenza a parità di ore di lavoro fuori casa la suddivisione delle incombenze domestiche era già sbilanciata, la stessa non cambierà in tempi di pandemia. A parità di ore di lavoro non fuori ma da casa, la bilancia continuerà a penzolare tristemente dalla stessa parte e con la stessa inclinazione di prima, con l’aggiungersi del carico di novanta costituito dal dover ora pensare anche a due pasti al dì moltiplicati per tre col resto di due. Ah no, niente resto.

E certo, questa gestione da Medioevo nel 2020 è retrograda e ingiustificabile ma io sfido chiunque ad aprire le polemiche proprio in tempi di quarantena, quando già le tensioni casalinghe s’affettano col machete. Almeno da queste parti, dico.

Ma ciò che mi ha fatto davvero vacillare sono stati gli scoppi di pianto della minore, un paio di sere, fiumi inarrestabili di singhiozzi e lacrime così difficili da arginare, consolare, razionalizzare. Perché fin che sei tu che ti barcameni, zoppicchi, abbozzi…è una cosa; ma quando a collassare sotto il peso dell’immobilità, della lontananza dagli amici, dai nonni, da compagni e maestre è colei che hai più cara al mondo…eh beh, quello è tutto un altro paio di maniche. E hai voja a spiegarle la curva di Gauss e la dimunzione dei contagi: non so voi, ma come stiam messi non lo so bene neanch’io.

Perciò ora facciamo che il post caruccio sulle mie piccole/grandi ossessioni in tempi di pandemia lo riservo alla prossima volta:

oggi son contenta di appuntarmi qui che da quando le nostre passeggiate nel verde che, per nostra fortuna, occhieggia davvero a pochi passi da casa son diventate un rito quotidiano (seppur brevissimo) e ancora, da quando Camillozza ha iniziato a fare i compiti via FaceTime con le compagne, da quando son riuscita finalmente a dimostrarle che usare il tablet non solo per stordirsi di video demenziali su Tik Tok ma anche per le ricerche sulle zone carsiche non è solo un dovere ma anche un ottimo modo per non spegnersi di noia….va tutto decisamente meglio.

Eccezion fatta per chi mi cerca al telefono, visto che il mio smartphone è ormai l’appendice del suo braccio, novella Menenio Agrippa ai tempi della pandemia 2.0.

Avere 10 anni e 10 mesi ai tempi del Coronavirus

E insomma siamo arrivati ad aprile.

Mentre la curva dei contagi non accenna a distendesi, la natura esplosa in tutta la sua scintillante bellezza di verde smeraldo e verde pistacchio ci ricorda che sì, è primavera, anche se le scuole son chiuse dal cinque marzo e sei lunghissime settimane di fermo forzato han piegato sia adulti che bambini.

Rimbalzando disorientati in questo tempo inedito, ovattato e lattigonoso, le mamme lavoratrici riscoprono di avere in casa nuovi coinquilini (tuo marito e tua figlia, due presenze tanto fondamentali quanto sfuggenti in quel complicato gioco ad incastri che è la vita quotidiana in tempi di normalità, quando in pratica li incroci solo ‘a fine turno’ nei giorni di feriali e un po’ di più giusto nei festivi) mentre gli adolescenti si ritrovano a pronunciare frasi che manco nelle trame di Spielberg più ardite. Cose del tipo “Oh, mi manca la scuola!”, per intendersi.

Eppure a salvare i teenager dall’isolamento non fisico ma quantomeno sociale ci sono appunto loro, i social, croce e delizia di ogni genitore di millennials; e proprio le piattaforme online che ospitano le varie WeSchool e le altre classi digitali a domicilio contribuiscono a scandire le loro giornate, a vestire di una parvenza di normalità questa fetta di tempo e di spazio che di normale non han veramnte nulla.

Ma metti invece di avere 10 anni e 10 mesi, troppi per non renderti conto di quanto tutto questo sia anomalo ma troppo pochi per saper tenere insieme con un certo grado di autonomia i fili ingarbugliati della tua esistenza da una stanza di comando – la tua cameretta – a suon di pc, tablet, e smartphone.

Metti che le videolezioni, nella tua sia pur promettente quinta elementare spezzata a metà, non siano mai (ancora?) partite e che il tuo unico, concreto impegno settimanale consista nel trascrivere, al lunedì pomeriggio, la lista disorganica di compiti settimanali che arriva via Whattsup, e che dovrebbe in teoria tenerti impegnata sino al venerdì.

In teoria, perché poi di fatto il tuo corpicino stremato dalla sedentarietà e la tua testa che ha smarrito tutti i punti cardinali ti conciliano (almeno quello) sonore dormite sino alle 10 e mezza o alle 11 di mattina che nessuno trova il coraggio di interrompere. Finché non sei tu, contrita e stropicciata, a trascinarti a piedi scalzi verso la cabina di comando della mamma, che essendo la tua cameretta e la tua scrivania temporaneamente riconvertite a studio del papà, consiste nel tavolo antigraffio della cucina.

Il tempo per un bacio veloce e una scompigliata ai capelli – non che tu ne abbia bisogno: ogni santa mattina, l’impressione è che a svegliarti non sia stata la fame ma una bomba H esplosa sul comodino – e poi la tua mamma dovrà rituffarsi nella sua pioggia di mail, di conference call, di skype e di zoom meeting che faciliteranno pure la comunicazione aziendale, ma ti costringono a numeri da contorsionista quando, per dire, devi arrampicarti al ripiano del Nesquik sfuggendo all’occhio implacabile della telecamera accesa.

E così le tue mattine scivolano via pigre e inconcludenti, qualche compito seduta di fronte alla mamma – vicine eppure lontane, anche a casa! – il saluto quotidiano via FaceTime ai nonni, qualche pagina di “Io sono Ava” da sfogliare senza troppa convinzione e poi sino all’ora di pranzo neanche li vedrai insieme, la tua mamma e il tuo papà. Come se davvero fossero ognuno nel suo ufficio!

Ti va meglio dopo pranzo, perché questo mantra dello sfruttare la pandemia per riscoprire il tempo della famiglia, qui da te l’han presa tutti molto sul serio: la tua mamma e il tuo papà continuano a lavorare da casa, è vero, ma ciascuno ha definito il suo personale programma di casalinghitudine condivisa, assecondando le proprie inclinazioni personali per cercare occasioni di attività più o meno creative da fare con te.

E così, finalmente, dopo pranzo la tua tabella di marcia inizia ad assumere una sua forma, slabbrata e claudicante, okay, ma pur sempre forma, ecco:

Dunque Pagnettella, è lunedì! Stasera, non appena la mamma chiude il pc, ci mettiamo all’opera e prepariamo la torta di mele. Dopo cena torneo di Jenga e intanto il papà ti presta il telefono così puoi salutare Rachele/Max/Carola/Giorgia/Sofia/Gabriele/etc.

Evvai Pagnottella, finalmente venerdì! E la mamma lavora solo mezza giornata, yeah! Perciò niente compiti ma vorrei continuassi a leggere un po’. Poi appena fa una pausa, intercetti papà e insieme preparate una bella mail per il minimarket elencando tutte le cosine buone che vorreste mangiare…da qui a venerdì prossimo, ecco. Già che ci sei, fatti spiegare come creare un foglio di Excel, mmm? Poi tra un pochino scendiamo insieme all’area ecologica (wow) e tu potrai portarti dietro il monopattino. E dopo cena, Risiko!

Questi programmi cerchiamo di formularli ed esplicitarli ogni giorno, perché se anche il virus ha reso le traettorie delle nostre vite adulte simili quelle di palline da flipper impazzite, credo sia nostro dovere di genitori puntellare perlomeno quelle poche, precarie certezze rimaste ai nostri figli, indipendemente dalla loro età.

(Poi sarei ipocrita se non dicessi che nello sforzarmi maldestro di farlo, sono assalita da mille dubbi e mille paure, novecento delle quali convogliano proprio su di te, bambina mia, che sei figlia unica ed ora tendi a far uso del tablet come del fratello che non hai….)

Ma poi, di ritorno dall’area ecologica, mentre le nostre ombre s’allungano sull’asfalto e i miei passi frettolosi rimbombano, tanto è irreale e assordante il silenzio che ci circonda, tu mi sfrecci accanto sul tuo monopattino e il bel sorriso che s’allarga dietro la mascherina troppo grande per te lo rivelano i tuoi occhi a mezzaluna, due pozzetti color del mare di tenerezza e coriaceo spirito d’adattamento.

“Sai cosa mi piace di questa quarantena, mamma?” “Mmm, vediamo, svegliarsi alle dieci anziché alle sette e mezza ogni mattina?” “Riprova!” “Ah, ci sono! Il tuo amichetto Max che un giorno su due ti dà la sveglia, con un’esilarante, sconclusionata videochiamata da quel di Siena…?” “Mmm…non stavo pensando a questo ma sì, questo è positivo, in effetti. Ma no, quel che è bello, mamma, è che adesso che non abbiamo più il permesso di far praticamente niente, passiamo un sacco di ore tutti e tre assieme sul divano, e io in mezzo a voi, come in un sandwich dal sapore buonissimo!”

E mentre la mia città continua a trattenere il respiro, dietro la mia mascherina io me ne lascio sfuggire uno lunghissimo.

“Andrà tutto bene” – a prezzo di migliaia di vite umane – non è un motto che ho mai sentito molto mio, tant’é che qui il disegno con l’arcobaleno che sorride giulivo non lo abbiamo neanche fatto.

Però andrà, questo sì, in qualche modo andrà, se non altro perché tutto scorre & panta rei: e tu, Pagnettella, continuerai a crescere sotto i nostri occhi ammirati dispensando pillole di saggezza under 18; ed io non potrò che continuare a ringraziare chi, lassù, 10 anni e 10 mesi fa, ha messo sul mio cammino queste due incredibili mezzelune blu, capaci di scorgere persino il lato tenero di un’epidemia.

Appunti di (non) normalità da quarantena

In queste lunghe settimane apocalittiche e surreali, dopo almeno dieci risvegli consecutivi prima dell’alba con cuore in gola e un “no, no, dimmi che è stato un sogno, dimmi che non è ver…nooo, lo è” in testa, ho maturato almeno una convinzione. Le pandemie, come le calamità naturali, hanno perlomeno un risvolto positivo: quando è in gioco la sopravvivenza, ti portano a spazzar via tutto il superfluo e a ridare la giusta importanza a ciò che realmente conta. Relazioni umane innanzitutto.

Involontario barometro delle emozioni e del sentire altri, il dannato COVID-19 ha scoperchiato quelli che per me son stati una serie di rivelatori vasi di Pandora. Persone che chiamano e scrivono con assiduità, genuinamente interessati a come stai, a come affronti l’inedita reclusione forzata, che estendono il loro interesse e il loro pensiero ai tuoi genitori anziani, ai suoceri, ai tuoi cari; persone che da mattino e sera si sentono in dovere di tirar su le tue labbra piegate dall’amarezza a colpi di barzellette, video-parodia e cori di discutibile gusto; e ancora, persone il cui spessore intellettivo si rivela essere quello di un bastoncino di merluzzo e che tuttavia, quando tu inizi a pensare che la tua capacità di pensiero si sia rattrappita e la tua testa ospiti solo palline scoppietanti (ma vuote) di pluriball, hanno il grande pregio di farti tornare a sentire non dico intelligente ma quantomeno lucido. Consapevole. E di conseguenaza, preoccupato.

Non possiamo nasconderci dietro un dito: quest’epidemia/ormai pandemia è davvero un’apocalisse, una sciagura come poche prima al mondo, e se talora lo sgomento si fa vertigine, senso di impotenza, abissi di paura e fiumi di pianto non dobbiamo vergognarcene, anzi. Personalmente, mi farei qualche domanda se la mia unica reazione fosse spammare l’etere di orrendi fotomontaggi Paint.

Poi, chiaro, l’istinto di sopravvivenza soccorre tutti ed allora, nel fortunato evento in cui non si contino parenti attaccati ai respiratori, si cerca e si deve vestire di una parvenza di normalità questo inanellarsi sempre uguale di giornate sospese che tutto sono, tranne che normali.

Qui a casa Koala, per esempio, la (non) normalità è fatta di (tanto) smart-working, il che mi ha portato ad ordinare una panciuta sedia da ufficio per ovviare al mal di schiena perenne da seduta rigida della cucina; di giochi di società e di un inedito marito che si cala nei panni del masterchef de noiarti la domenica mattina; e ancora, la (non) normalità sono capriole di coccole e solletico al risveglio nel lettone al mattino ed odi unanimi alla vasta libreria di Netflix la sera, sul divano: la deliziosa sudcoreana “Crash landing on you” è al momento sul podio tra le serie in visione su questi lidi.

Ma la (non) normalità è anche far conversazione coi vicini terrezzati rimescolando pigri il Nescafé del dopo pranzo – vicini con cui magari sino all’altroieri non ci si scambiava neanche un ciao; okay, togliamo pur il magari; il (non) normale è sciabattare rassegnati su un parquet lucido come mai prima per cercare l’apribottiglie da una spolverata di cassetti ordinati e precisetti come manco quando ci montarono la cucina, nel glorioso luglio 2010. La (non) normalità è ricamare cuccioli ciuffosi di Fox Terrier per un’amica e nel farlo sospirare e chiederti chissà quando riuscirai anche a consegnarle, i suoi ricami.

E’ tutto (non) normale, è tutto maldestro e improvvisato perché ormai anche l’intimità forzata delle tue quattro mura ha perso il suo potere implicito di farti sentire al riparo dal mondo, inghiottito da una faglia sismica nel tempo di un: Wuhan che?

E’ (non) normale, lo so, ma anche l’unica non-normalità che conosco al momento.

Perciò avanti tutta.

Che indietro, di sicuro, non si torna…

C’è qualcosa di smart, ai tempi del Coronavirus

Quando ho pubblicato questa foto su IG volevo essere caustica. Tempo 24 ore e non era più ironica ma oggetto di quesiti del tipo: “Ti preeego mi dici dove hai trovato ancora mascherine omologate?! e gel per le mani?!” AHI

Cari amici virologi e non!

L’idea originaria di tornare a spammare l’etere con recensioni libresche di dubbia utilità è stata spazzata via repentina dall’ombra lunga del COVID-19, il nuovo import ed ormai anche export cinese di cui tutti avremmo fatto tanto volentieri a meno. Ma tant’è.

Alquanto scettica sulla concreta utilità delle ordinanze draconiane della mia regione, stenderò un velo pietoso su quella landa spettrale in cui s’è trasformata Torino nel giro di neppure 24 ore, passando dal caos della movida del sabato sera al deserto del Gobi della domenica all’ora di pranzo:

mutazione toccata con mano, giacché ieri pasteggiavamo nel locale centralissimo di amici in cui di norma ci si siede a suon di spintoni. Ieri alle 13: tre tavoli, incluso il nostro, più un loquace vecchietto con due canetti al guinzaglio restio ad abbandonare il bancone del bar, credo perché in cerca di un po’ di calore umano. Perché fuori, come detto, il nulla cosmico.

Ora, io non so se ci voleva una presunta (ma non reale) pandemia, a far scattare gli interruttori alogeni dell’illuminazione ai piani alti di multinazionali, enti pubblici e piccole-medie aziende, ma anche qui evito di pormi domande e mi limito a esultare:

finalmente, per chi scrive, è tempo di smart working!!!

Ebbene sì! Dopo anni passati a battagliare per il riconoscimento normativo della possibilità di lavorare in remoto quando si svolgono attività che per il 30, 50 o 90% del tempo non richiedono la presenza del lavoratore in ufficio… forse forse ci siamo.

Nessuna ratificazione normativa, nessun adeguamento contrattuale, okay, ma sin da venerdì sera, per dire, dalle mie parti le alte sfere si sono pronunciate a favore del telelavoro. Limitatamente a questa finestra d’emergenza, okay, ma per come la vedo io potrebbe anche rivelarsi un banco di prova, un apripista…una futura conquista, chissà!

Io ci spero tantissimo. Un pomeriggio trascorso a scaricare report, aggiornare tool e sparare mail a raffica acciambellata sulla poltrona di vimini sul terrazzo, bibita zuccherina, maglietta di cotone e sole allo zenit sulla capoccia (e sullo schermo retroilluminato, e vabbeh) inframezzati dai bacetti di Camillozza – che aveva ricevuto ordine di rispettare privacy e concentrazione della mater familias ed ha obbedito come un soldatino, bacetti spot esclusi – e già sento di non poterne più fare a meno.

Quando ho reclinato lo schermo di (questo) PC era trascorsa un’ora e mezza in più rispetto al consueto orario di lavoro, la stessa ora che normalmente avrei impiegato a imprecare contro i disservizi della GTT, dei treni, di mio marito soggetto a sequestri serali in ufficio (…) se avessi dovuto fare, come sempre, la pendolare.

Quanto durerà questo estemporaneo assaggio di libertà? Beh, almeno a sino a venerdì, stando alla newsletter aziendale.

Sono preoccupata per la diffisione del virus in terre sabuade (ma anche non)? Chiaro; ma vorrei vivere, nel mentre. Sono frastornata e sconcertata al cospetto di una psicosi dilagante, con la gente che si litiga le Diperdì Aia e fa incetta di casse d’acqua quando esiste l’acqua potabile?! Molto.

Ma quanto son felice, da 0 a 100, di poter finalmente lavorare da casa, pranzare con la mia piccina, sorseggiare il caffé con i miei ed infilare, per dire, le ennemila foto del biennio 2017-18 negli appositi album foto, acquistati e mai s-cellofanati causa tempo di approvvigionamento NP, non pervenuto?

Mentre scrivevo mi sono interrotta per parlare al telefono con mia cugggina, mia cugggina. Il 4° malato di COVID-19 torinese è un suo collega, che lei non conosce. Ergo ditta e succursali chiuse, più tamponi previsti per colleganza tutta…e stiam parlando di oltre mille persone. Com’è che si diceva qualche anno fa? Bene, ma non benissimo.

Ma almeno non toccatemi l’unico risvolto smart, vi prego.

Work in progress

Dicesi “tuta di cortesia” …

…l’abbigliamento wannabe sportivo che non assolve manco per errore ai fini aerobici/ginnici/tonificanti per cui è stato concepito, ma si presta in maniera eccellente alla vestizione facile del sabato e/o della domenica mattina – una felpa, un leggings e una sneaker & sei pronta a scendere al bar e all’edicola sotto casa. Tipo starlette di Hollywood nel weekend senza essere a Hollywood. Nè una starlette. Solo nel weekend, eam.

E salvo poi sentirti domandare com’è andata la corsa, o se ti sei convertita anche tu allo squat. Emmmmmmmmm.

E comunque questo l’ho già scritto su IG e invece il post vorrebbe suggerire (a fatica, mi rendo conto) che qui su queste pagine raminghe l’aggiornamento è in corso:

a breve vi parlerò di tutti, ma proprio tuuuutti i libri letti nel 2019, che secondo quel prodigio tra le App prodigio che risponde al nome di Goodreads sono ben 51. Cinquantuno! Uno a settimana, ma non è pazzesco?

WOW… o forse ARG?! No perché… io tendenzialmente leggo (o ricamo) quando sono preda dell‘insonnia. E dunque, forse, più che da compiacersi qui c’è da consultare un medico, ma uno bravo davvero…

Welcome to 2020!

Cari amici vicini, lontani e immaginari! Spero innanzitutto di ritrovarvi bene all’inizio di questo nuovo e panciuto 2020; che nelle feste abbiate mangiato come facoceri, avvolto d’abbracci gratuiti sconcertati sconosciuti e viaggiato lungo traettorie ariose, non importa se geografiche o della fantasia.

Per quanto mi riguarda, i bordi di questa pagine maculati di ruggine pixelata mi confermano che sì, se non è una vita sono almeno un paio di mesi che latito da questi schermi: il lavoro, sul finire dell’anno, m’ha abbastanza stritolata, sicché nello scarso tempo libero rimasto ho preferito dar spazio ad un po’ di sempre sana manutenzione di vita sociale che a provare a darle voce con la solita prosa torrenziale. V’è andata bene, ‘nsomma;-)

E mentre nei bar virtuali di Twitter la polemica tra l’uso corretto di decade (all’inglese) e decennio (all’italiana) imperversa, secondo solo a quello sul colore politico degli spettatori del nuovo film di Zalone (ti è piaciuto? batti il cinque, cinquestelle! non ti è piaciuto? vade retro, xenofobo!) voglio comunque provare a ricordare, se non in parole almeno in immagini, i fatti salienti di questo ultimo scorcio di 2019.

Halloween 2019. Di questa serata ricorderò l’uscita con l’amica M. Elena, consueti scrosci di risa, brindisi con Cosmo ben dosati ma anche insperati spunti illuminanti in vista dell’iscrizione in prima media della minore.

Novembre 2019, l’amico Sam festeggia i suoi 50 anni in un locale per gggiovani sull’orlo limaccioso del Po. Bollicine e discomusic, e chi siamo noi ex ragazze del Cocoricò per tirarci indietro..?

Dicembre 2019, primo saggio di ginnastica ritmica per Pagnott’. Sarò di parte, ma io un elfo così puccioso non l’ho mai visto.

It’s Xmas time! Tempo di rispolverare il solito alberello animalier – mentre un enigmatico Juan Luis circuisce la nostra Gems su Canale 30 del digitale terrestre, ndr – e tempo anche di rispolverare la tradizionale tavolata del 26, a questo giro a casa koala. Com’è che scrisse David Foster Wallace? Una cosa divertentissima che non farò mai più;-)

Non è Natale se le tre bbbionde non si ritrovano almeno per un brindisi. In questa istantanea in zona S. Salvario, due algide bellezze sorridenti ed una terza presenza evidentemente offuscata da dosi massive di Diclofenac.

E finalmente, happy new year! Qui abbiamo salutato l’agognato 2020 con un Capodanno in quota, carburati da amici festosi, sostenuti da salvifici cerotti Thermocare e rimpinzati come tacchini del Thanksgiving da un catering particolarmente prodigo. Ed ora, let’s get it started, gente!

L’inizio del declino

A lungo ho creduto che l’inizio del declino coincidesse con quella fase della vita in cui, senza neanche rendertene conto, incominci a bombardare il prossimo tuo con un’antologia non richiesta di ricordi, aneddoti, memorie più o meno guadenti ma sempre e comunque attraversate da una vena potentissima di nostalgia e rimpianto, il cui sottinteso è: allora sì, che si ragionava!

Ahhh… ai miei tempi, quando i pullover si scegliavano su Postalmarket! (e quindi? adesso non lo fai mai su Yoox?)

Ahhh…quando Claudio Cecchetto lanciava il Gioca Jouer e un ballo di gruppo raggiungeva il primo posto in classifica e vendeva mezzo milione di copie! (solo io mi ritrovo ancora a dormire, salutare, autostop, starnuto, camminare, nuotare per poi migrare a la playa a ritmo dei Righeira ad ogni singola festa di compleanno/matrimonio/anniversario/laQualunque..?)

Ahh… ai miei tempi, quando i paninari sfoggiavano le felpe Best Company, i jeans sopra le caviglie, i giacconi Moncler, l’Invicta a righe e i calzettoni Burlington! (appostatevi all’uscita di una scuola superiore privata nell’annus domini 2019 e rispondetevi da soli).

Sta di fatto che in questi ultimi mesi, mentre queste pagine accumulavno non gomitoli ma gattini di polvere, trasformandosi in una sorta di dismesso gattile elettronico, ho realizzato con sconcerto che il mio personale inizio del declino è già in atto e non ha nulla, ma proprio nulla a che fare con i memoir generazionali. Io guardo avanti…peccato che punti al domani dietro lenti da presbite e con miraggi da VillArzilla!

Ma ecco a voi in rigoroso ordine sparso i 6 segnali inconfutabili che il mio declino è già in atto.

Dyson V11. Babbo Natale prendi appunti perché te lo ritroverai sulla letterina.
  • Il mio oggetto dei desideri dell’anno è un elettrodomestico Dyson. Solo che non si tratta del (parrebbe) miracoloso set di spazzole Styler Airwrap, fautrici di onde e ricci beyonceiani, no. Il mio elettrodomestico del corazon è il mitico aspirapolvere verticale senza fili, che con i suoi 14 cicloni concentrici generati con un clic – qualunque cosa essi siano, ndr – promette di aspirare anche gli atomi scomposti e i neutrini del Cern. Prima di compiere 40 anni, se mi fosse stato anche solo ventilato come presente natalizio un aspirapolvere, avreste ricevuto notizie del malcapitato donatore sulle pagine della cronaca nera.
Dita a martello: che piaga!
  • Per anni, da bambina, ho sorriso con mia cugina Valeria ai tragicomici, inarrestabili racconti di mia nonna materna aventi ad oggetto il suo alluce valgo, i suoi calli e i suoi duroni. Nonna Mariuccia meets The Podologo era un format esilarante e apparentemente inesauribile, ma solo di recente ho iniziato ad apprezzarne la grande lungimiranza e la profonda realtà: le mie dita a martello sono una piaga! Mi fanno male 8 paia di scarpe su 10 e vabbeh che adesso viriamo all’inverno e posso rifugiarmi nei morbidi e pellicciosi (simil)Ugg ma…che patimento! Credo di aver ammorbato la mia vicina di scrivania quella vaganota di volte, questa estate, perché incapace di trovare un solo modello di sandalo semichiuso che non mi provocasse all’istante sfregamenti, piaghe e vesciche. Appassionante…come un tallone calloso, nevvero?
Chi va piano va sano e va lontano. Ma lontano da me.
  • Ho sviluppato un vero e proprio odio per chi cammina piano. Lo so, lo so, c’è un mondo là fuori, e forse anche voi ne fate parte, che ama prendersela con calma, indugiare sul pavé occhieggiando le vetrine (o il display del cellulare) ma…per Dio, inserite una marcia superiore al freno a mano quando i marciapiedi sono stretti e alle vostre placide terga create code degne del Raccordo Anulare al venerdì sera! Un tempo, e che ve lo dico a fare? non prestavo la benché minima attenzione all’andatura di chicchessia. Neanche alla mia, credo.
Intanto, averceli.
  • Non mi ritrovo a citare solo mia nonna, no! Mi ritrovo addirittura a citare mia madre, quando è notorio che la figlia femmina è un mammifero concepito per contestare la propria genitrice, ohibò. Ora, mia nonna stava al podologo come mia mamma sta al motto di: “Chi più spende, meno spende”. Ed io, dopo lustri di shopping low cost d’impulso e migliaia di euro devoluti alla causa di Zara, Stradivarius, H&M e compagnia e montagne di paccottiglia pailettata/perlinata/fiocchettata vista, presa & MAI mai indossata (me cretina: I know) che a distanza di mesi veniva poi puntualmente regalata in blocco a giovani cugine, vicine di case e amiche di amiche di… temo proprio di aver sposato la causa materna. Adesso i miei carrelli, reali e virtuali, tracimano di capi MAAA…io procedo all’acquisto solo dopo un’accurata selezione frutto di scientifiche valutazioni. E’ 100% cotone/lana/pelle? Gli orli son degni di questo nome o destinarsi a sfaldatasi come il leggendario mini abito di Charlize Theron in un vecchio spot tv? Prenderà fuoco solo a guardarlo? Mi farà male? (v. punto precedente). E via discorrendo. Il risultato è, innegabilmente, che compro meno ma compro meglio. Spendendo sempre quanto spendevo prima. E cioé, eam…troppo 😀
Perdonami Sòra Luisa per averti sempre ignorata!
  • In linea con il mio nuovo approccio alla spesa, ma soprattutto indice di un indiscutibile invecc… em, declino, una confessione cui siete liberi di reagire manifestando l’horror vacui: le linee di Luisa Spagnoli non mi fanno più così (posso dirlo?) schifo. Si dà il caso che due vetrine pastellose/bouclettose del celebre marchio per signore (ove l’aggettivo qualificativo “mature” è omesso solo perché sottinteso dalla conformazione trapezoidale delle spalle dei blazer sui manichini, ndr) che occhieggiano a cinquanta metri scarsi dal mio ufficio ma mai, mai e ripeto MAI avevano attirato il mio sguardo sino alla primavera scorsa calamitino adesso, qualche volta (qualche) la mia attenzione. Un certo tipo di tubino-sciccosino, di longuette al ginocchio né-lunga-né-corta, di spolverino-elegantino-ma-non-leccatino non mi dispiacciono più così tanto. Non ci faccio un pensierino solo perché anche i prezzi sono da marchio per signore (aggettivo sottinteso: benestanti, molto benestanti) ma soprattutto perché nella mia hometown ho ormai trovato la mia boutique del cuore: quella di un’altra Luisa (combinazione!), autentica artista della sartoria che propone capi intramontabili e super modaioli al tempo stesso, shakerando il classico con quel tocco d’estro che li rende al contempo originali e portabilissimi. E che mi salva dalla deriva impietosa al Nonna Abelarda style.
  • 6. “Ma non avevi smesso?!” mi ha domandato salendo di alcune ottave la mia augusta genitrice un paio di sere fa, lo sguardo perplesso su una tovaglia in tela AIDA che è quella che vedete…em, istoriata a colpi di fili DMC qui sopra. Avevo smesso, è vero. Ma quando sei agéé dentro, le vecchie abitudini sono dure a morire. E così, da qualche mese, la scatola del ricamo è la fida compagna delle mie pazze, pazze notti tutte divano, copertina e Netflix, sotto gli sguardi egualmente perpliti di marito e figlia (“ma un giorno diventerò anch’io così?! oddioooo…!!”)

E voi, amisciii e amicheee all’ascolto, avete già iniziato la vostra personale discesa non nella terza, non nella quarta ma nella quinta età? Quali indizi ve lo fanno pensare?

TrashBack

E’ con una mantellina – manco tanto metaforica – di malinconia che torno ad imbrattare questi schermi dopo l’estate parlamentare più grottesca di sempre. Tu pensi di aver assistito al peggio del peggio in qualche anfiteatro di villaggio vacanze in quel di Jerba nella gloriosa estate ‘99 ed invece no! i nostri allegri rappresentanti istituzionali ammiccano sulle prime pagine dei quotidiani in un improbabile, rutilante, picaresco Ferragosto al Quirinale (un fantastico titolo da cinepanettone: fratelli Vanzina, pensateci!) dando prova di doti istrioniche che Totò, scansàte proprio.

La mia estate vacanziera, vale a dire le mie tre settimane di infradito vento mohijto e, um, c’è altro? non mi pare, sono in realtà state molto più placide e svac, em, pacate, ancorché caratterizzate dalla presenza massiva di amici, conoscenti e – ca va sans dire – kiters spiaggiaroli. Menzione d’onore a colei che ha organizzato una festa di compleanno in spiaggia, addì 12 agosto, assolutamente memorabile, tanto che gli amici torinesi presenti sul bagnasciuga ne parlano ancora. Altro che Ferragnez!

Ho disertato allegramente la cucina, unico locale rimasto privo di tracce di sabbia, ma direi di passaggi umani tout court, dopo 21 giorni di soggiorno e infilato certe triplette di aperitivo in spiaggia, cena itinerante & dopocena al porto che rimpiango ancora in sogno.

Ho assistito con un misto di tenerezza ed ansietta al rinforzarsi del legame tra Camillozza ed il suo tedeschino del cuore, che camminavano mano per la mano sul pavé di Castiglione della Pescaia quando tra la folla rischiavano di perdersi; o almeno, questa è la spiegazione che voglio darmi io del perché fendessero i turisti tenendosi per mano, ecco;-)

Ho letto poco, o comunque molto meno di quel che avrei voluto, non tanto perché distratta dal folto parco amici ma perché delusa dalle mie scelte in libreria: la fretta, si sa, non è mai una grande consigliera ed io sull’onda della concitazione del pre-partenza avevo fatto scorta di tomi le cui quarte di copertina promettevano, così, a un colpo d’occhio disattento, faville o quantomeno fuocherelli d’entusiasmo. Mentre si sono rivelati in molti casi di una pesantezza, non solo fisica, inenarrabile. {Se volete dei consigli per gli acquisti in libreria, ma degli acquisti da evitare…ecco, chiedete pure! Di contro, se avete voi qualche bel titolo da consigliare, fate, fate pure: per alleggerire un po’ il rientro sto meditando di graziare le mie spalle scavate dal peso di certe sporte di libri cartacei & munirmi di Kindle. A maggior ragione le raccomandazioni dei titoli da 0.99€ a 9.99€ sono ben accette!}

Nell’immediato, intanto, confido di chiudere in bellezza una settimana di rientro bella intensa con un pranzo nel piacentino a base di gnocco fritto e a tendere, con il nuovo, ricco palinsesto di Real Time. Già sento che Matrimonio a Prima Vista, per dire, sarà foriero di grandi soddisfazioni trash.

Stay Tuned, insomma, canale 31 e non.

L’estate addosso

Sempre in attesa di esplorare Cape Cod, Rhode Island, il New England e naturalmente il mo sogno proibito – ma sbandieratissimo – che è Nantucket, leggasi tutti i rifugi radical-chic dei vacanzieri newyorkesi opulenti oggetto di tanta ET magnificente letteratura nordamericana, e sempre in attesa di infilare il 13 milionario che mi permetterà di farlo (…) anche quest’anno, come da tre stagioni a questa parte, la minifamiglia ed io ci siamo concessi un’estemporanea vacanzina toscana.

E se un tempo il canto della mia sirena mi guidava in Versilia – le memorabili vacanze coi Guappi! Ah, che ricordi! – ormai da anni il baricentro del buen retiro si è spostato in giù, nel Grossettano, a meno di un’ora dal Lazio.

Nel cuore della Maremma, fattorie secolari con porticati e terrazze appoggiate sul verde ma la cui vista spazia sino al mare si son convertite in agriturismi accoglienti; spiaggie bianchissime raggiungibili solo dal mare o attraverso pinete che son tappeti di aghi di pino e concerti di cicale ti guidano verso dune sabbiose e onde indomite sferzate dal Maestrale.

E’ un incanto selvaggio, questo posto, e davvero non potrò mai comprendere chi, a tutta questa meravaglia a un tiro di schioppo, preferisce i rettangoli squadrati degli stabilimenti tradizionali all’altra estremità del paese, le colate di cemento dei residence e degli hotel a far ombra dalla passeggiata, le file ordinate di ombrelloni di tela arancio e gialla e il baruccio pavimentato col maxischermo puntato sulla partita.

E nulla, sono tornata da due giorni ma già è iniziato il conto alla rovescia alle prossime eco-vacanze di agosto, che poi tanto eco manco sono, ma per i miei standard sono rusticissime e profumano di tarassaco e rosmarino ma soprattutto di tanta, agognata, inesprimibile libertà.

Tuo padre sembra Dante/e tuo fratello Ariosto (part 1)

Cari amici e amiche di Mark Caltagirone,

ora che la verità s’è palesata – Mark sono io, motivo per cui nell’ultimo bimestre sono stata, come dire, inafferrabile 😀 – posso anche uscire dall’ombra e tornare ad imbrattare allegramente questi schermi.

Ed in considerazione dell’epoca, perché non farlo disseppellendo dai gattini rotolanti di polvere un bell’amarcord direttamente dagli anni ’90?

Correva l’annus domini 1995 in quella della bassa taurinense; mese di giugno in tempi non sospetti, leggasi quando ancora l’emergenza climatica non deflagrava quotidianamente in micidiali secchiate di grandine e allagamenti repentini un giorno sì e l’altro pure.

Insomma: faceva caldo, mooolto caldo, caldissimo proprio per chi, a giugno 1995 come me, s’appropinquava al temutissimo, vecchio esame di maturità. Maturità classica, peraltro, nulla a che vedere con quel divertissement di laurea in Scienze delle Merendine che sarebbe arrivata cinque anni dopo.

Sino alla fine degli anni ’90, che a voi sembrano il Pleistocene ma per noi quarantenni hanno lo smalto e la vividezza dell’altroieri, o giovani maturandi all’ascolto (?!), dovete infatti sapere che il temutissimo esame di Stato per ogni studente di scuola superiore dello stivale assumeva i contorni dell’incubo.

Per dire: se voi pensate che oggi, dopo la riforma di fine anni ’90, l’esame così com’è strutturato oggi, con crediti, commissioni miste, tre prove e via discorrendo, rappresenti uno scoglio scoscesissimo…ecco, allora moltiplicate tutto questo per cinque (per me, pure per quindici) ed non otterrete che una vaga idea di cosa rappresentasse la maturità allora.

Non per nulla, Venditti non c’ha dedicato una canzone per caso!

Un solo commissario interno – leggasi: una sola anima pia che foooorse, avendoti conosciuto nel lustro precedente, potesse infonderti un po’ di coraggio – due materie per l’orale su una rosa avvizzita di quattro/cinque proposte dal Ministero, di cui una a tua scelta e l’altra a scelta della commissione. L’horror vacui proprio, perché se é vero che oggi oggetto dell’esame son tutte, le materie, vent’anni fa si richiedeva che quelle quattro/cinque sorteggiate tu le conoscessi dalla A alla Z, dieresi incluse.

E nella mia fulgida annata, nello stoico tempio dell’umanesimo, per capirci, la sorte ricadde sul quinquetto letale di latino greco italiano storia matematica.

E sulla concomitante infezione all’occhio destro, antesignana delle uveiti, congiuntiviti e fotofobie che sarebbero state, veramente ideale per ripassare notte e dì (ma soprattutto notte, v. dopo) rinchiusa in casa con 30° all’ombra, tapparelle ermeticamente sigillate, lettere e numeri a mischiarsi e confondersi sulle pagine alla luce fioca dell’abat-jour. Magari alle due di pomeriggio.

Il tempismo, la gioia, la baldanza proprio.

(to be continued)