





La vedete quella collezione di guance paffute lassù?
Tralasciando Cami, che ormai conoscete, gli altri concentrati di tenerume si chiamano Mira, Danelo e Yari. Hanno rispettivamente 9 mesi, 2 e 4 anni, ma qualche mese in meno quando sono arrivati nella mia città a marzo di quest’anno da Leopoli, Kherson e Mariupol.
Mentre la propoganda russa lanciava implacabile missili e menzogne, le loro giovani mamme e nonne smantellavano vite intere da mattina a sera; sullo sfondo di scheletri anneriti di città un tempo ariose e luminose, salutavano tra le lacrime gli uomini di casa per salire a bordo dei pulmini organizzati dai salesiani della scuola di Cami; pulmini che attraversando Italia, Austria, Ungheria e Slovacchia sino al confine di Vysne Nemecke e ritorno, provavano a restituire ai profughi uno scampolo di respiro.
Serenità certamente no, con la guerra che tuttora ci assedia con i suoi boati, con i volti scavati degli uomini al fronte, con quel pianto di neonata nel gelo della metropolitana di Kiev – un’immagine che, insieme a quella, inenarravile, delle fosse comuni del Donbass – è forse quella che mi s’è infilata più a fondo nel cuore, emblema di sin dove può spingersi la follia di un dittatore paranoico.
Da marzo di quest’anno, la vita stessa sembra aver poggiato il piede su un acceleratore impazzito cui io personalmente non riesco più a star dietro; la vita galoppa mentre io m’affanno al trotto, talora anche al passo, toh. Troppe cose e troppo grandi e gravi per metabolizzarle ed affrontarle.
Ma alla guerra no, alla guerra che ci bussa da vicino non si può restare indifferenti.
Sarà perché scortando Cami a scuola ho avuto modo di conoscerli, i piccoli Danelo, Mira, Yurij, con le loro mamme Olena, Nina, Marjana…sarà perché accompagnadomi ad Almira, la mia amica russa (russa: e in prima fila nel supporto ai profughi della nostra città, nota bene), le barriere linguistiche sono cadute ed ho così guadagnato anche io la fiducia e l’affetto di questa piccola comunità, lontana nella geografia d’origine (Mariupol si trova a 1.200 km da Leopoli, che è come dire da Catanzaro a Trento), accomunata da una tragedia nazionale ma soprattutto compattata da un comune obiettivo: farcela.
Apprendere i rudimenti di una lingua che mai avrebbero immaginato di dover masticare – c’è una rete a trama fitta sapientemente ordita di volontari che mattino e pomeriggio radunano gli ucraini in gruppi e tengono lezioni sempre più partecipi e interattive; acquisire abilità manuali magari spendibili più avanti; garantire ai ragazzi e ai piccoli una primavera non dico serena, ma sicura: sono queste le attività che occupano quotidianamente le giornate di quelli che oramai Almi ed io chiamiamo “i nostri amici ucraini”.
Che andiamo a trovare quando possiamo, spesso la sera quando io termino lo smart e allora lei passa a prendermi con la sua station wagon argentata, il cui bagagliaio risponde a misteriose leggi entropiche per cui, per quanto stracolmo di borse di giocattoli e vestiario, non è mai veramente così pieno.
C’è sempre lo spazio anche per le mie, di borse, ed è così che alla viglia di Pasqua (la nostra: loro avrebbero celebrato una settimana più tardi la Pasqua ortodossa) abbiamo improvvisato un brindisi alla pace con pizzette e Prosecco. Estratti un po’ tiepidi dal bagagliaio magico, consumati tra abbracci e lacrime – di sfogo, di paura, di commozione ma anche di affetto.
Perché ci si vuole bene a vicenda, ormai. Si festeggiano compleanni, si regalano smalti e trucchi, ci si racconta di figli e nipoti (e qui sorvoliamo sul fatto che a raccontarmi della nipotina sia anche una nonna mia coetanea…), si partecipa se si può alle tante iniziative di beneficenza del sempre efficente corpo salesiano.
Camilla mi segue raramente ed è un peccato perché sarebbe un ottimo corso accelerato di educazione civica: la realtà è che (effettivamente) due o tre dei teenager ucraini son proprio carini e allora lei, che sta sgusciando via dall’infanzia a velocità di acceleratore di neutrini, si imbarazza un po’. E’ un peccato, ripeto, perché per quel che mi riguarda la mia limitatissima, insignificante, microscopica attività di volontariato è forse anche l’unica che sento, in questi mesi, di poter definire “sensata”, nel senso di portatrice di senso, di valore.
Il resto è tutto abbastanza un caos (manco tanto) calmo.
Piove un weekend sì e l’altro pure e quindi in campagna, dove di norma trovo pace da giornate tiranneggiate da scadenze e impegni, si va pochino; con grande rammarico di Cami, perché i cugini-vicini ospitano una nuova cucciolata mai abbastanza sazia di coccole & grattini. O viceversa;-)
Nonostante i ritmi impazziti e il carico mentale a mille (o forse proprio in virtù di quelli), attraverso inspiegabilmente una fase di lettura bulimica. Leggo la sera prima di dormire e riprendo la notte quando mi risveglio; tra marzo e aprile penso di aver macinato otto o nove libri. Di recente la mia attenzione libresca è rivolta ad un altro tipo di follia, quello della politica “Zero Covid” di Xi Jinping, con decine di milioni di cittadini del Celeste Impero nuovamente reclusi a mo’ di topi da laboratorio con una formula di lockdown implacabile e militaresco davvero degno del peggior regime.
Ed è quindi con un moto di tenerezza che, pochi giorni fa, mi son ritrovata a sfogliare un improbabile raccoglitore ad anelli datato 1993, un reperto (decisamente) d’epoca religiosamente custodito a casa dei miei. Un reliquiario Cartiere Pigna, ecco. Contiene disegni e bozzetti di scarsa qualità ma genuino entusiasmo di un’epoca della mia vita in cui avevo tempo anche per disegnare…oltre a studiare, leggere, scrivere su non uno ma tre diari condivisi, dare ripetizioni, ricamare, innamorarmi, disamorarmi, fantasticare, uscire e insomma guardare al futuro con genuino slancio ed entusiasmo.
Ora come ora, lo slancio è un po’ quello di un canguro morto; poi però mi guardo attorno (e davanti, dietro, in alto, in basso) e realizzo che non posso lamentarmi.
“Yari, manda un bacio a papà!” gli dice la sua mamma.
E Yari apre il palmo, appoggia la bocca e allunga la mano al cielo, perché il suo papà non c’è più, perché il suo papà è uno dei molti, troppi caduti senza colpa nel Donbass.