Mari fuori & montagne interiori, bonus & malus edilizi, letture d’infanzia & misto fritto: il mio wrap up di febbraio

Mai come nei luuunghi, interminabili ventotto giorno del febbraio finalmente archiviato ho sognato di svegliarmi e ritrovarmi nel corpo pingue e fluffoso del mio avatar, un saggio pelouche che vive di eucalipto ed autonarcosi: una pesantezza cosmica generale è stato infatto il segno distintivo di un mese partito male, proseguito malissimo e risollevatosi giusto alla fine, complice un weekend mondano di festeggiamenti e un’iniziativa libresca che mi ha catapultata indietro in tempi (assai più) lieti.

Resta il fatto che per i tre quarti del mese l’ovale tendente al bluette di Laura Palmer emanava più brio della qui scrivente; perché le parole possono essere spigoli acuminati, e per quanto l’età, addizionata ad una qualcerta innata propensione al masochismo accettazione, mi abbia resa bella elastica e abbastanza impermeabile agli urti della vita (cit. Carboni) e con meccanica efficienza abbia tenuto insieme i pezzi di famiglia scuola lavoro tempo libero…il colpo l’ho accusato.

Forte, chiaro e potente. Poi ripeto,ho imparato da tempo e a suon di cicatrici a sciogliere da sola il nodo stretto della delusione e del risentimento; ma la memoria, la cache, l’hard disk qui nella capoccia beh, quella non posso cancellarla con la sola forza di volontà.

Ma torniamo a noi e ai toni trash che più ci si confanno, suvvia. Che coi mental breakdown scansati c’ammorba già sin troppo la Ferry nazionale, il cui grande evento traumatico è stato, vabbeh, riconosciamone la portata, lo sfratto il licenziamento la malattia le stragi in mare ah no…

Sanremo 2023.

Ma dato che questo tignoso febbraio è stato così denso di accadimenti, per renderne in modo appropriato tutta la complessità, l’idiosincrasia, la polifonia…ah no, qui volevo solo dire che di febbraio ne ho piene le tasche, i drammi veri sono altri e insomma procederò per bullet point. …come quando si mandano le mail di lavoro agli americani, presente?, notoriamente capre ignoranti poco avvezzi alle, em, zona d’ombra e alla complicanza.

Tre, due, uno…via.

Il 110%, ovvero lo Squid Game condominiale. Purtroppo (okay, non purtroppo ma vedi oltre) la fatidica comunicazione di inizio lavori per Superbonus, la chimerica CILA-S, è stata presentata dal condominio in cui dimoro, tra una transenna e l’altra, ben prima della scadenza ultima dello scorso 25 dicembre. O novembre. Vabbuò.

Perché se non sapete di che vada blaterando, beati voi: ché il mondo della riqualificazione energetica è una selva oscura, irta di ostacoli e farcita da mangerie della miglior specie come solo noi italioti sappiamo concepirne, tant’è che sta (per fortuna, a detta della nostra ditta appaltatrice!) inesorabilmente finendo.

In ogni modo: da aprile 2021, quando l’adesione al Superbonus era solo una nebulosa chimera, allo scorso lunedì, quando di isolamento termico degli involucri, coibentazione dei tetti et similia avrei potuto scrivere una tesina una tesi un PhD, credo di aver preso parte a qualcosa come centordici riunioni straordinarie. Tutte rigorisamente in seconda convocazione, tutte in orario serale (leggasi: ora pasto), tutte con rare eccezioni destinate a prolungarsi oltre i limiti dell’umana sopportazione. Unica nota positiva, dall’anno scorso i simpatici convivi si tengono in un convento, convento che rivedo sempre con affetto perché lì si tenne il mio corso prematri…ah, no, perché lo fiancheggia il kebabbaro più buono dei dintorni. Ché dopo ore ed ore di sbrodolate sugli infissi e sui montacarichi uno potrà almeno sbrodolarsi un po’ anche con cipolla e pummarola?

Ecco, febbraio è stato particolarmente denso di riunioni: ordinarie, staordinarie, interne col solo caposcala (sapevate dell’esistenza dei caposcala condominiali? Ecco, neanche io. Ebbene, il nostro vive al terzo piano e tiene traccia con invidiabile zelo delle questue di tutti i dirimpettai di Scala C), interne/esterne con caposcala e maestranze della ditta appaltatrice, e ancora, preliminari a quelle plenarie ma estese al direttore lavori e/o ai serramentisti e/o elettricisti e via discorrendo. Praticamente l’agenda di Joe Biden ma senza l’ufficio stampa di Joe Biden. Ché poi secondo me per rinfrescare un po’ la Casa Bianca basterebbero la metà delle riunioni.

Ecco, aggiungiamoci che a queste estenuanti sessioni di coscienza collettiva in orario post prandiale partecipano immancabilmente quei personaggi macchiettistici che ogni agglomerato suburbano non può non annoverare, tra cui – ogni riferimento è puramente condominiale – il vecchietto con l’apparecchio acustico che interrompe esplosioni di urla beduine all’indirizzo dell’amministratore e della 15ima rata al grido di “Ma qui parlate tutti PIANO, ma qui non si sente NIENTE” (intanto i fraticelli del convento han chiamato il 113); l’ingegnere mitomane fresco di laurea di GENNAIO che boccia la suggerita modifica alla rampa di accesso a nome di tutti (tutti CHI? le tue foglie d’alloro?); il pater familias pancino che lamenta il fatto che da mesi gli amati virgulti non possono guocare a nascondino tra le fresche frasche del giardino senza il rischio di beccarsi un montacarichi sulla capoccia (vero, verissimo, per carità, senonché da che mondo e mondo gli operai non VOLANO); la bionda svampi-ma-non-così-svampi che sollecita risposta al sollecito del sollecito della sua mail del 12/12 ad oggetto gli infissi di colore bia…ah, ops, quella sono io 🙂

Ma insomma per dire che può esser tutto molto, troppo pesante, senza parlare di quando le discussioni si trascinano, sterili ma estenuanti, fuori dalle sante porte del convento, mentre sullenostre coste si consumano veri e propri drammi ed ecatombi…tipo Sanremo 2023, certo.

A ognuno la sua croce e a me il punto croce. Uno bravo un giorno magari mi spiegherà perché io mi ostini ad imbarcarmi in progetti sempre pià arditi ambiziosi insensati, trasformando quello che è il mio personale antistress in una folle maratona alla scoperta di quanti MILIONI di punti possono toglierti vista e sonno in un un mq2 di tela.

No, perché da quando scarico da Etsy i sampler delle immaginifiche ricamatrici ucraine – per sostenerle, certo, ma anche e indiscutibilmente perché imbattibili, speriamo solo non su quel fronte – è tutto un crescendo di file PDF chilometrici da stampare in A4, ritagliare nei bordi e incollare tra loro sino a ricostruire schemi dalle dimensioni di lenzuoli. Bellissimi, eh, per carità. Ma del tipo che ti fa anche chiedere: ma che, mi ha forse obbligato il medico?

Ma insomma l’ultima folle impresa è quella che vedete abbozzata in un MILIONESIMO della sua grandezza reale in foto lassù: la cameretta di un’adolescente declinata in tutti i toni del marrone brunito, tipo ottanta diverse gradazioni di DMC nocciolato, una cinquanta sfumature di grigio su tela che lungi dal procurar piacere, provoca ormai, dopo mesi di croci cappuccinate, conati di vomito solo alla vista di cibi/liquidi/arredi/abiti marroni.

Ecco, se vuoi farmi male in questo periodo, offrimi della (brrr) Nutella. Ma favorisco una visuale più ampia per spiegarmi meglio.

Ma passiamo infine alle note positive, di questo mese sfidante, e notare bene che non ci ho infilato dentro nessun riferimento al lavoro, perché, beh…perché cerco di essere positiva. Non al Covid né allo streptococco, eh, grazie.

La montagna interiore e il mare in tivvù. Nel commentare alcune mie foto su IG ad oggetto l’ultimo weekend di febbraio in montagna, tipo le prime due che vedete lassù, la mia amica Radiant evidenziava la, em, conclamata assenza dell’elemento montano in praticamente tutto l’album, che pure si chiamava “weekend in quota” o qualcosa del genere.

Alla mia amica di sempre rispondevo – mi pare dopo quattro calici di bianco, ma stavo pur sempre festeggiando non uno ma ben due compleanni, maritt’ & amica E – che esiste evidentemente una montagna interiore che laddove paesaggi limpidi, verdeggianti e gloriosi non sortiscono nessun effetto (stavo per dire: non fanno né freddo né caldo, però in montagna fa innegabilmente freddo, eh) si riscalda a suon di brindisi, risate e festosa compagnia. Con la compagnia giusta, per dire, ho persino raggiunto un punto panoramico in quota…ma anche perché poi al rifugio m’attendevano tagliere e salumi. Laddove insomma l’amore per le vette innevate non arriva, arriva tutto il resto & contesto. La montagna interiore, chiaro!

Sempre e solo ammòòre e plauso invece per il mare, il sole, la sabbia, le nasse, gli ombrelloni…o meglio ‘o mare, ‘o sole…Ebbene sì, col consueto ritardo mi sono tramutata anche io in una #marefuorersss, una fan della fortunata serie di Rai 2, insomma, che sto recuperando in ingorde sessioni di binge watching serale su Netflix. Avendo resistenze al sonno mooolto diverse, in pratica funziona così: maritt’ si spara quattro puntate a sera/notte, io la metà. Il giorno dopo io recupero e lui rivede (!). La sera dopo lui di nuovo quattro e io due. La sera dopo, recupero. Insomma poteva fare l’allenatore dell’Atalanta!

Girata nella base navale della Marina di Napoli, la fiction In effetti più fiction di così non potrebbe essere: quelli che dovrebbero essere i detenuti di un penitenziario minorile sono a metà tra i briosi ospiti di un campus americano da film anni ’80, i partecipanti a Love is Blind e, vabbeh, i fratelli minori di Gomorra, questo sì. Tra una coltellata e l’altra, una vendetta di camorra e un rapimento, si consumano tormenti d’amore e concerti karaoke; ci si affeziona però anche ai personaggi (il mio prefe, Cardiotrap, che sogno di rivedere ad Amici) ed è indiscutibile che la trama sia costruita ad arte per tenerti incollato allo schermo, puntata dopo puntata. E cioè quattro puntate o due puntate a sera, vedi sopra.

Cicale, cicale, cicale: si balla? No, si legge! L’ho tenuta per ultima, la chicca del mese, per cui non smetto di ringraziare l’amica ed autrice Sandra, conosciuta proprio grazie al blog e presto diventata un punto di riferimento per le mie maratone libresche: libri che consiglia, libri che scrive…libri della sua infanzia di cui s’è messa caparbiamente alla ricerca e che ha pure trovato!

Ecco, se come Sandra e come me coltivate per i libri una sorta di venerazione – il libro come testo, il libro come messaggio, il libro come oggetto tangibile e porta sulle emozioni modello madeleine– vi invito caldamente a leggere questo suo post.

Post che ha mi ha fatta immediatamente fiondare su Ebay alla ricerca di alcuni titoli della mia infanzia, e che ora occhieggiano tenerelli e mezzi seppiati sulla cima della pila infinita che mi aspetta sul comodino. Che poi in realtà il delizioso “Le cicale”, ed. 1971, che nella metà degli anni ’80 fu il testo di narrativa che la mia augusta genitrice scelse per una sua classe delle medie – io facevo quinta elementare o giù di lì, e curiosa mi appropriai della copia omaggio che le case editrici mandavano in estate – vorrei lo leggesse innanzitutto la minore. Perché a me, ai tempi, folgorò. Tant’è che è già in arrivo il suo sequel, “Il ballo delle cicale”, le adolescenti compagne di scuola tra luci, ombre e batticuori della prima estate libera dai compiti a casa, ovvero quella dopo la terza media. Quella che attende Cami, insomma.

Ma è vero anche che allora io ero piccina, che erano altri tempi…che faccio che rileggermelo e fodermelo prima io che non vedo l’ora, valà. Piccola nota di ulteriore tenerezza, in calce a questa copia recuperata online e priva di tagliandino commerciale – insomma identica alla mia, quindi chissà, altro reperto da prof? vi sono anche gli esercizi di comprensione del testo. Come dice Cami: ADORO.

E con questa operazione nostalgia passo e chiudo. Ma fatemi sapere se ricordate qualche titolo della vostra infanzia, che sono…siamo, okay… curiose!

Non solo Harry: top e flop delle letture del 2022

No, non leggerò quel malloppazzo di Spare perché m’è bastata la serie di Netflix per farmi ricredere sulla non-più-royal couple del Sussex/Montecito che lì per lì aveva attirato le mie simpatie: giovani, belli & ribelli. Seee.

Allergico ai media e nemico giurato della stampa che tanta responsabilità ebbe nella tragica morte della mamma (vero), il fratellino di William ha giust’appunto pensato di fare degli ultimi tre/quattro anni tra Buckingham Palace e Sognando California una serie TV in sei puntate che è un cliffhanger di vittimismo ed autocelebrazione che Evita Peron, scansate!;

un’ospitata milionaria nel salotto più popolare d’America, quello di Oprah;

ennemila puntate in Late Show minori ed ora, beh, come eludere definitivamente l’obiettivo del Grande Fratello se non con un memoriale bomba le cui cinquecento pagine e passa son la versione moderna e incoronata di Oliver Twist? Padre anaffettivo, fratello subdolo, matrigna cattiva, lutti negati e gioventù bruciata …è o non è materiale per un cartoon Disney che si chiuderebbe, però, con immancabile lieto fine?

Ecco, poiché sul lieto fine della diaspora dei Sussex dubito fortemente, no, grazie, come detto sento di aver già dato.

Ma invece di star qui a demolire la novità editoriale del nuovo anno, il sempre fedele Goodreads – l’unico social che non ti fa sentire un boomer senza speranze anche se hai (da mo’) passato gli anta mi informa che nel 2022 ho ingollato la bellezza di 64 libri! Complici il Kindle, che per me è sinonimo di complusione alla lettura veloce, una biblioteca cittadina sempre più fornita e la sempre fruttifera parentesi vacanziera – ad agosto, nelle sole tratte di mare Livorno-Olbia & ritorno mi pare di aver macinato quattro libri – non posso effettivamente lamentarmi della mia Reading Challenge.

Ma ad oggi, cosa ne resta? Al netto di qualche Twingo, parecchie & scattanti Ferrari (cit. BZRP Music Sessions #53 by Shakira).

Da cosa partiamo? Massì, facciamo dai flop, dai, fosse mai che vi risparmi qualche acquisto incauto – e che mi attiri le ire di chi quel testo l’ha amato e lo lovva tuttora tantissimo, e vabbeh. Seguiranno i TOP, che in realtà son stati molti di più di questa frettolosa cinquina. Come sempre, se avete amato o odiato fortissimamente nel 2022…raccontatemi cosa, se vi va.

I FLOP LETTERARI DEL 2022

Un matrimonio perfetto, Sarah Pinborough

Se esiste in letteratura l’equivalente dei Razzle Awards per il cinema questo mix letale di soft porno & giallo di bassa lega entra a pieno diritto nella top ten della categoria. Osceno, in tutte le sue accezioni, e poi prolissooo, noioso, inconcludente.

La candidata perfetta, Greer Hedricks e Sarah Pekkanen

Dopo aver buttato alle ortiche ore preziose per capire dove il legame malato e privo di qualunque logica e credibilità tra la sadica psichiatra newyorkese che individua nella make-up artist squattrinata ma modaiola la candidata perfetta del titolo al suo studio su etica e morale, ve lo posso anticipare così da risparmiarvi l’acquisto: non porta assolutamente da nessuna parte!

Scritto coi piedi, popolato da personaggi avvincenti come bolle d’accompagnamento e razionali come triglie al salmì, una caterva di digressioni di rara inutilità per raccontarci quanto son belle e ben vestite le protagoniste… io davvero non mi capacito come cotanta spazzatura sia stata partorita dalla penna non di una ma di DUE autrici. Sacro Graal!

Il profilo dell’altra, Irene Graziosi

La delicatezza di un centrotavola di gondole veneziane racchiuse in palla di vetro, ‘na cafonata come poche altre (pag 167: “Mi sfilò il tampax e iniziò”) sono per me il segno distintivo di questa pompatissima e acclamatissima opera prima che ci ripropone il sempiterno topos della gggioventù tormentata & ribelle.

Cacofonico, sciatto, tutto ruota intorno alle pippe mentale di inflenZer e amica di influenZer ribbeeelli e tormentate e cattive e autolesioniste. La sinossi che lo accompagna in aletta di apertura, poi, è abbastanza fuoriviante perchè di torbido mondo dei media/social media/social network si parla con la profondità di una pozzanghera in una torrida estate di secca. Il finale, un picco infelicità tra il Giovane Werther e i fratelli Vanzina.

Ecco, qui molti dissentiranno e allora li invito – senza spirito polemico alcuno, anzi – a dirmi perché questo libro sarebbe BELLO.

I TOP LETTERARI DEL 2022

Mai stati così felici, Claire Lombardo

Se mai nutriste qualche dubbio sul fatto che le storie americane (okay: molte, storie americane) sono storie di tutti, storie in cui si entra, ci si accomoda in soggiorni, si partecipa con trasporto alle vicende di queste grandi famiglie disfunzionali sino alla dipendenza… io davvero vi invito a tuffarvi senza rete di protezione in questa stratificata, poderosa indimenticabile saga famigliare.

Non fatevi intimorire dalle quasi 700 pagine perché – credetemi – se il genere è il vostro, punterete sveglie antelucane pur di sapere cosa ne è delle sorelle Sorensen, le cui vite anche adulte tornano e gravitano attorno alla casa di infanzia di Fair Oaks, dove gli amorevoli genitori, David e Marylin, non hanno mai smesso di essere porto sicuro e riparato all’ombra del ginko di famiglia – come evocano le foglie in copertina.

DiesCi, senza se e senza ma.

Portami il diario, Valentina Petri

Arguto, ironico, sagace: non vi sono aggettivi lusinghieri che non siano già stati spesi all’indirizzo dell’ottima Petri e alla sua inimitabile dichiarazione d’amore ai suoi studenti e al suo lavoro di insegnante. Da figlia di & amica di svariati insegnanti, non ho potuto che accompagnare la lettura da vigorosi “sì sì” con la capoccia, né esimermi dal consigliare a tutti ma veramente tutti i miei contatti – da un lato e dall’altro della cattedra – questa lettura che arriva dritta la cuore.

Promossa con lode.

Le verità di Miracle Creek, Angie Kim

La violenta esplosione di una camera iperbarica nella contea di Miracle Creek, in Virginia, dà il via ad un processo per omicidio quantomai coinvolgente: pubblico ministero ed avvocato della difesa sono solo due dei tanti protagonisti che la magistrale Angie Kim, non per nulla avvocato, restituisce con tratto sicuro e ricchezza psicologica superlativa.

Risultato? Un legal thriller dal ritmo serrato in cui ogni singola pagina è un crescendo di climax e una nuova scoperta, ma anche un romanzo di denuncia appassionato che esplora le zone d’ombra della faticosa integrazione sociale delle comunità coreane in nord America, la capacità di reagire ai tracolli, il dilemma tra etica e sopravvivenza, il conflitto tra legami di sangue e giustizia processuale.

Ipnotico.

La casa di Fripp Island, Rebecca Kaufmann

Non conoscevo l’autrice, che tutti raccomandano per il pluripremiato “La casa dei Gunner” e non posso che ringraziare la mia sempre ottima Radiant Orchid che al Salone del Libro mi ha dirottata verso lo stnad della Sur a passo spedito,

Nell’atmosfera indolente e disimpegnata di una vacanza estiva, i destini di due famiglie si intrecciano e si legano indissolubilmente in virtù della morte di uno dei protagonisti che le segnerà per sempre.

Non vanta pretese da novello “Il nome della rosa”, ma si fa amare esattamente per quello che è: una murder story ben scritta e ben congeniata: l’abilità dell’autrice risiede, a mio avviso, nell’aver anticipato sin dalle prime pagine che una morte violenta si abbatterà sugli ignari vacanzieri. Un climax d’attesa pervade infatti poi tutta la storia, ove le dinamiche famigliari sono al centro della narrazione con spunti introspettivi potenti su conflitti di coppia e struggimenti adolescenziali, perché al lettore sorge spontaneo chiedersi chi arriverà al punto di uccidere chi e perché.

Poirot!

Tutto per i bambini, Delphine De Vigan

Ingredienti: una starlette di reality mancata, che diventata madre decide di rifarsi e trasformare i suoi figli, Sammy e Kimmy, in piccole star dei social network; un padre remissivo, incapace di opporsi; la piccola di casa che palesa i primi segni di insofferenza da sovraesposizione mediatica e scompare; una poliziotta fermamente intenzionata a ritrovarla.

Svolgimento: in un thriller ad alta tensione in cui ricerca investigativa e approfondimento sociologico diventano tutt’uno, l’ultimo romanzo della mia scrittrice francese preferita è ancora una volta acuto e intelligente.

E poi che voglia, di farne recapitare una copia alla premiata ditta monetizzatrice della qualunque Fedez&Ferragni!

Mai stati così felici. Vabbeh, prima del Covid sì

In questo ultimo biennio abbastanza distopico, la carta stampata mi ha tenuto una compagnia senza uguali. Secondo la Reading Challenge di Goodreads, ambiziosamente settata sui cinquanta testi annui, non solo ho raggiunto il traguardo entrambi gli anni ma l’ho addirittura superato: 56 libri letti nel 2020, altri 56 nel 2021. Ullallà.

Lungi dal pensare che questi numeri mi ammantino di una qualche aura pseudoletteraria – lo dice anche l’Istat, che tutti abbiamo letto tendenzialmente di più, in tempi di pandemia – ho comunque sorriso parecchio sotto i baffi quando, ad inizio anno, si è scatenata un’infuocata polemica a colpi di tweet perché qualche ignaro lettore ha ardito usare la piattaforma per tirare le somme delle letture macinate nell’anno appena archiviato. Orrore! Abominio! Ubris! Indimenticabile il Tweet di tale @moopkid da cui poi la polemica è espolsa, assumendo contorni tra il grottesco e il fantozziano:

“giudicare qualcuno da QUANTI libri abbia letto in un anno è una pu**anata. io potrei aver letto 3 libri, tu 40, ma io mi sono letto il manifesto del pc, lavoro salariato e capitale e la condizione anarchica, tu la saga di geronimo stilton. è la stessa cosa? no”

Ma non flexare, stai calmo bro… sarebbe il serafico commento di mia figlia, che è poi in soldoni il sentire – e il twittare – della maggior parte di chi s’è preso la briga di investire tempo ed energia nell’articolare una risposta al Robespierre di Karl Marx, dando vita appunto ad un botta e risposta tanto eterno quanto sterile. Io non ero tra quelli, ca va sans dire. Ero impegnata a leggere Paperinik.

Ma venendo a noi e a quella copertina stratopica, ops, volevo dire, strabella che occhieggia quassù: ho appena archiviato un tomazzo di quasi settecento pagine che m’ha allietato le serate/nottate negli ultimi dieci giorni. Un romanzo ipnotico, meraviglioso, dallo storytelling articolato e assolutamente accattivante.

L’ho appena recensito su Goodreads e vorrei farlo anche qui, fosse mai che qualcuno fosse in cerca di spunti di lettura. Non so se s’è capito, ma ne sono entusiasta.

***

C’è un motivo per cui la narrativa nordamericana mi attira a mo’ di cane pavloviano e per me curiosa come una scimmietta quel motivo risiede nel fatto che nessuno ti spalanca la porta di casa quando un autore a stelle e strisce: ci avete mai fatto caso?

Sicuramente sì. Nella letteratura come nel cinema e nelle serie, otto volte su dieci avverti potente e magnetica l’energia di una storia che diventa presto anche un po’ la tua, di storia.

Impossibile non pensare a un “4321” di Auster, con le quattro sliding doors delle quattro possibili vite di Archie, o correre col pensiero alle notti insonni di binge watching ingordo che una saga famigliare televisiva come “This is us” innesca nello spettatore, presto ipnotizzato dalle travagliate vicissitudini della famiglia Pearsons tanto da non riuscire a premere sul tasto stop.

Ma veniamo a “Mai stati così felici” e alle mie cinque stelle entusiaste: se ancora nutriste qualche dubbio sul fatto che le storie americane (okay: molte, storie americane) sono storie di tutti, storie in cui si entra, ci si accomoda sul pouf in soggiorno, si partecipa con trasporto alle vicende di queste grandi famiglie disfunzionali sino alla dipendenza… io davvero vi invito a tuffarvi senza rete di protezione in questa stratificata, poderosa indimenticabile saga famigliare.

Non fatevi intimorire dalle quasi 700 pagine perché – credetemi – se il genere è il vostro, punterete sveglie antelucane pur di sapere cosa ne è delle fantastiche sorelle Sorensen, le cui vite anche adulte tornano e gravitano attorno alla casa di infanzia di Fair Oaks, dove gli amorevoli genitori, David e Marylin, non hanno mai smesso di essere porto sicuro e riparato all’ombra del ginko di famiglia – come evocano le foglie in copertina.

L’autrice, di cui si stenta a credere che sia il primo romanzo, gioca abilmente da un lato sullo sfasamento dei piani temporali, con un plot elaborato che scivola agile su e giù lungo le linee del tempo e dall’altro sul continuo cambio di prospettiva di quelli che risultano protagonisti a tutto tondo, una fauna di comune eppure eccezionale umanità consegnatoci con dialoghi vivaci e tratti rapidi ma molto evocativi, in una perfetta sintsei del sempreverde vademecum del bravo scrittore anglosassone: “Show, dont’ tell”.

Wendy la ribelle, Violet l’individualista, Liza la generosa e Gracie l’immatura sono particelle subatomiche con cariche respingenti – conflitti irrisolti, rivalità di fondo, idiosincrasie caratteriali – che pure non smettono di cercarsi, attraendosi e respingendosi, entrando ed uscendo dalle reciproche esistenze imperfette, e sempre con quell’uscio di casa socchiuso a beneficio del lettore, che finisce presto per innamorarsi un po’ di ciascuna di loro.

Personalmente, il personaggio che ha fatto breccia nel mio cuore, strappandomi non poche lacrime, è David, il patriarca – una figura accogliente e remissiva in cui mi sono rivista a tratti e che conosciamo impacciato mentre fatica a scendere a patti con la dimensione placida della vita domestica di neopensionato.

Ci penseranno le sue figlie, con il loro bagaglio XXL di drammi, segreti e conflitti – a ridare vita – e non pochi grattacapi – all’ex medico di famiglia, in un crescendo di pathos tanto articolato quanto verosimile che si srotola attraverso i decenni e che ti conquista, con la celebrazione poderosa della forza senza pari dei legami di sangue.

DiesCi, senza se e senza ma.

***

Si dice che capisci di aver letto un buon libro quando giri l’ultima pagina e ti senti come se avessi perso un amico: ecco, io da ieri sera mi sento profondamente orfana.

Perciò, se anche voi avete consigli di lettura sulla scia di quanto sopra… non lesinate, ecco.

I never can say goodbye. Un libro e un film dal finale opinabile

Foto fuori fuoco. Un po’ come tutta la mia gallery, insomma.

Non so se sia colpa di questo periodo di superlavoro, delle giornate invernali in cui il buio cala presto, delle mie dottrie da talpa o della somma dei tre (probabile), ma in questo periodo percepisco un po’ tutto fuori fuoco.

Dopo averne riso (sorriso, dai) per anni, mi ritrovo improvvisamente in linea col terzetto di sciùre torinesi che tutti i mercoledì, dopo aver accompagnato i figli liceali a scuola, si concedono un caffè, ma soprattutto una litania infinita di lamentazioni, al bar che ogni mattina mi regala (regalerebbe, se è mercoledì) i dieci minuti di benessere quotidiano: cappuccino con cacao, pasterella, quotidiano, pace, amen.

Non amo, perché tendenzialmente non mi interessa un’acca, origliare conversazioni di sconosciuti, ma il tono da baritono di una delle tre rende impossibile sottrarsi al rumore di sottofondo, all’acufene non richiesto eppure inevitabile. Ma gli insegnanti dei figli sono delle arpie! Tutti e indistintamente! Per non parlare di questi mariti assenti/dormienti/nullafacenti! E degli eredi minori, disordinati all’iperbole, che dobbiamo dire, eh? Diociscampi, signora mia, dalle fidanzate dei liceali di cui sopra, una manica di sgallettate senza arte né parte degne figle di genitori agli antipodi dai tre geni di guèra infervorate al tavolino del bar, ergo assolutamente indegne della loro luminosa progenie. E potrei continuare, tipo 180 minuti, eh.

Ecco. Ultimamente, quando la neverending pletora di lamentazioni m’investe a mo’ di uragano Katrina II, la tentazione non è più quella di alzarmi, incenerirle e sbottare “E mo’ bastaaa!”, no. Ultimamente, quando le sento, mi ritrovo a pensare che quasi quasi potrei intervenire, ed accodarmi al coro. Che tante, troppe porte son rimaste socchiuse, dunque né aperte né chiuse, troppi piani abbozzati e mai finiti (e dunque fuori fuoco), troppi non detti si son piazzati lì, bloccati tra lingua ed epiglottide, e insomma niente torna e tutto è un po’ così: senza baricentro, senza finale, senza fuoco.

Vi faccio un esempio. Due, dai.

Di recente nulla di quel che leggo mi piace, o almeno non mi piace in modo plateale ed assoluto – ed io son una da innamoramento letterario facile, eh. Ma con “Il matrimonio delle bugie” di non so più quale autrice bestseller iù es eì, thriller incensatissimo tradotto in ennemila lingue etc. ho proprio pensato: Ma che schif…em, ma che lettura sconclusionata, nel senso letterale di “priva di conclusione”.

Già il plot si presentava banalotto, sia chiaro. Ci sono lei, lui, la classica (che poi: classica su che pianeta, esattamente?) coppia upper-class perfetta, bella casa, buon lavoro, volemòse bene etc. etc. finché l’Evento di cesura che dovrebbe giustificare le oltre 300 pagine di agonia (per il lettore, solo per il lettore) non spariglia un po’ le carte dormienti.

Il marito parte per un viaggio di lavoro in Florida e, doh, nello stesso giorno un aereo diretto da tutt’altra parte precipita e il buon uomo figura nell’elenco delle vittime. Senza ambire al Pulitzer, poteva anche essere un buon punto di partenza, se solo la scrittura non fosse più piatta del Tavoliere delle Puglie, la trama di fatto oscillante tra l’impalpabile e l’assurdo, la storia del tutto inverosimile ma il finale, beh…il finale proprio da piangere. E no, non per l’overdose di pathos.

L’impressione è che l’autrice, dopo aver infarcito trecento e rotte pagine di banalità e nonsense, giustamente si sia ritrovata a chiedersi: e mo’ che fàmo? Come la chiudiamo, ‘sta storia che più che Agatha Christie sembra Stanley Kubrick – ma con un tocco di irrealtà alla Elza di Frozen? Mmm… Ma a caso, la chiudiamo, signora mia, a caso! E infatti. Quando pensi che il finale non possa esser peggio di tutto l’abominio di prima, pof, magia! Lo è, lo è! E quando dico finale, intendo il capitolo finale E l’ultima riga proprio.

Ma veniamo al secondo – ed ultimo, tranquilli – esempio di storia che m’è sembra fuori fuoco, fuori centro, una conclamata americanata che pure, a leggere le recensioni, tanto male non sembrava. Parlo di “Ben is back”, film drammatico di Peter Hedges che segna il ritorno sul grande schermo di Vivian Ward aka Pretty Woman aka cliente Calzedonia tessera gold.

Di Julia Roberts, insomma.

Ben Burns (Lucas Hedges, figlio del regista), diciannovenne tossico in cura in una comunità, torna inaspettatamente a casa in occasione di Natale. Mentre il resto della famiglia accoglie l’epifania con sgomento e diffidenza, la nostra dolce e quasi infante madre Holly accoglie il figliol prodigo a braccia aperte, dando prova di un ottimismo ed una positività o del tutto americani… o del tutto assurdi. E infatti seguiranno 24 turbolentissime ore in cui gli occhi scintillanti di Holly/Julia cuor di burro si tramuteranno in cascate in piena e tutti i peggiori incubi di ogni madre acquisiranno forma, nome, cognome e losco indirizzo nelle peggio periferie dello Stato di New York.

Ora. Qualcuno ha scritto che con quest’interpretazione ad alto tasso di pathos familiae, nostra signora Julia potrebbe anche già essere in lizza per i prossimi Oscar. Io mi permetto di obiettare che a) forse Lucas Hedges potrebbe e che b) per quanto volenterosa e partecipe, la Roberts si ritrova invischiata in una trama troppo debole, troppo poco verosimile (spoiler: la corsa contro il tempo e contro i demoni di Ben hanno inizio per via del rapimento del cagnolino di casa. Cioè, bene ma non benissimo, essù) per ambire al red carpet. Ahhh…ed anche in questo caso (ecco dove volevo arrivare) sul finale mi s’è dipinto sulla capoccia un grosso, ma grosso punto di domanda. A me, e al pubblico in sala tutto che ha atteso speranzoso la fine di tuttiiii i titoli di coda nell’illusione di una dritta, un mini sequel, un frammento di fast forward atto ad illuminarci.

Ecco, no, potete alzarvi direttamente dopo l’ultima scena, sapevatevelo.

O anche ora, ho finito 🙂