Misto fritto senza gamberi (che non ho mai imparato a sgusciarli)

Leggevo su non so quale rivista di cui ho fatto man bassa durante il primo, sospirato break estivo – la tradizionale settimana di fine giugno nel grossetano, tradizione ahimé destinata a svaporare prestissimo visto che tra un anno, a quest’ora, la minore sarà impegnata negli esami di terza media (Mom needs a drink, esatto!) – che la pandemia è un po’ come la vecchiaia: una cartina di tornasole della nostra indole, che migliora se è pacifica e peggiora se è malmostosa.

In effetti non ci vuole Freud per intuire che l’esplosivo mix di chiusura forzata & limitazione individuale non può che mettere in risalto e forgiare la santa pazienza e lo spirito (diciamolo pure) di sacrificio delle persone miti e concilianti; di contro, un petulante irascibile non riuscirà a contenersi e darà sfogo a tutto il suo malumore. Malumore peraltro contagioso, proprio come il Covid.

Ora, io che faccio dell’understatement non la mia bandiera ma pure il mio intimo, la tshirt, i jeans e il cappello a tesa larga simil Borsalino, non ho esitazioni nell’asserire che avrò sì, mille limiti e altrettanti difetti, ma decisamente non lesino in quanto a provviste di pazienza. Spirito di sopportazione formato XXL. Volontà di conciliazione degna da ambasciatrice ONU. E via discorrendo. e no, Camy, non sto flexando 🙂

Tutto questo pippone d’apertura per dire, molto semplicemente, che dopo aver tenuto le redini da inizio anno di un decoroso menage familiar-social-lavorativo, finto sordità a tutte le fattispecie mendeliane di pettegolezzo, frecciate e strali assassini, tenuto a bada le ansie della mater familias che, porella, di recente non scoppia certo di salute, e ancora, appianato ogni sorta di contrasto con la serafica calma che manco il Mahatma Gandhi… sono arrivata all’alba del sospirato 18 giugno, sospirato addì della partenza, con il brio di una camera ardente e la flemma di Vlad l’Impalatore.

La verità è che, proprio come la protagonista dell’ennesimo teen drama che ho iniziato a seguire su Prime con la minore (L‘estate nei tuoi occhi: melassa allo stato puro tratta da young adult, diciamo una storiella leggera di formazione sul primo amore, il primo cuore infranto e la magia di un’estate perfetta ove si salva giusto la location, una lingua di oceano immaginaria ispirata a Cape Cod e Martha’s Vineyard, due tra le mete che torreggiano nella mia bucket list di viaggi da sogno, ndr), anche io misuro sostanzialmente il tempo in estati: autunno e inverno, freddi e brumosi, non sono che l’arduo passaggio obbligato che mi separano dalla primavera, stagione molto amata in quanto preludio della luminosa, briosa, disimpegnata estate – non aggiungo calda ché quest’anno non è il caso.

E insomma il mio umore da Grinch, per cui all’ennesimo: “Kiara, ma non è che hai visto i miei calzini/top/ombretti/prescrizioni/ciabatte/testa…?” i familiari hanno seriamente rischiato la pelle, aveva un gran bisogno d’estate, d’estate in vacanza, però: anche se solo di un pugno di giorni che volano via più veloci della mio PIN bacomat in tempi di saldi… questi per me son giorni salvifici.

Perché torno ad essere me. A spazzare via stanchezza e preoccupazioni per sorridere di genuino buonumore che sventola indisturbato al tempo delle bandiere di Kite Beach. Ad annuire anche quando magari nel retrocranio una vocina mi suggerisce luciferina: “Ma che fai, non dissenti?” No, grazie, proprio no: preferisco assentire. E godermi l’attimo.

Abbandonarmi a scrosci di risa irrefrenabili dopo grigliate sotto le stelle annaffiate da Tennent’s e vin santo con amici che in pratica vedo solo una settimana l’anno ma in quella settimana mi godo a tutto tondo. Spensieratezza e relax rotondo e puro. Profumo di costine alla brace e sogni a forma d’anelli di calamaro dorati e scrocchiarelli. Colori turchino, salvia e zafferano di Maremma, kiters dai 15 ai 65 anni e colazioni indulgenti alle undici di mattina coi piedi sulla sabbia mentre la stanchezza e il malumore si disfano via come pelle morta dopo la prima tintarella metà sole e metà ombra.

Di questa settimana in particolare ricorderò, sì, il relax così indolente da rasentare la catatonia (ho letto un solo libro, anche se imponente – lo vedete in foto – e questo per una che in spiaggia rifugge il sole e macina romanzi è significativo) ma anche l’umore luciferino della Pagnottella addì 22 giugno 2022 alla vista della sua torta di compleanno mentre le prime note di “Tanti auguri a te” si diffondevano dalle casse collegate allo smartphone in spiaggia: tanta, troppa gente ad applaudire i suoi 13 anni tra i tavolini del bar di Karolina:

e dunque quale miglior occasione per dare il là a questa zavorra ostinata di reticenza e malumore che è parte integrante del pacchetto “teenager”?

Quando abbiam visto la nostra (un tempo) piccola dar le spalle alla torta panna e fragole, il viso solcato dal disappunto, e rifugiarsi in riva al mare, credo che maritt’ ed io abbiamo realizzato in contmporanea e con non poco horror vacui che l’età della fanciullezza, dei sorrisi sornioni e delle coccole no stop se n’è definitivamente andata. Eclissata. Scomparsa. Boom!

E dunque un motivo in più per benedire il fatto che, quantomeno, eravamo in vacanza. Circondati da amici ed amichetti capaci in tempo zero di farle (e farci) tornare il sorriso.

A distanza di un paio di giorni vorrei tanto poter dire che gli effetti benefici del break continuano, ed in parte è così. Ritornare dai miei genitori, ritrovarli in forma nonostante l’età, nonostante gli acciacchi, nonostante tutto, già non è scontato e lo so, me lo dico e me lo ripeto – e me li voglio godere e portare fuori a pranzo.

Restano da mandar giù piccoli sorsi di amarezza, minuscoli distillati di scortesie, forse leggerezze, che però non t’aspetti e per questo fan male un pelino di più.

Mi dico da sempre che devo imparare, alla mia veneranda età, a rispondere non male, ma con la stessa moneta e puntualmente disattendo il proposito. A questo giro, invece, penso di aver iniziato.

Non so se si può andare proprio orgogliosi di aver abbassato di qualche tacca il proprio livello di (proverbiale) indulgenza, ma al momento mi congratulo da sola. Ché coi tredicenni la pazienza non è solo gradita, ma vitale, ma cogli over 45 anche no. O no?

Ansia sociale e inquilini di Gotham city: la FOMO si perpetua ed io ne ho le prove

Quando iniziai a frequentare Daniele, nel lontano settembre 2005 e nel leggendario segno del “No ma…niente di serio!”, a colpirmi del futuro consorte furono due caratteristiche che essendo da me molto distanti, mi incuriosirono come uno scimpanzé pigmeo e mi attirarono come un magnete al neodimio, in virtù della sempreverde legge per cui gli opposti che si attraggono (ma si respingono anche, come i magneti, certo).

Anyway.

La prima era l’abilità degna di cabarettista di Broadway di cogliere caratteristiche psicocomportamentali della colleganza tutta – nascevamo colleghi anche noi – e di riprodurle, il venerdì sera postlavorativo e preweekendaro al Caffé delle Scienze, con un combo di imitazione vocale & gestuale in una caratterizzazione così precisa e raffinata da farti sputare il tuo mohjito propiziatorio dal naso (ogni fatto o riferimento…) in preda a crisi di riso impossibili da contenere. Per la cronaca io, in vent’anni di onorata carriera corriera mi sono giusto specializzata nella replica approssimativa dell’inconfondibile parlata cantilenante in inglese indiano, il famoso Hinglish, dei colleghi dell’helpdesk di Hyderabad.

La seconda e ancor più caratterizzante peculiarità del mancato cabarettista era questa sua, em, come dire? refrattarietà ad archiviare qualsivoglia legame sociale per conservare, di contro, rapporti di conoscenza risalenti ai tempi del Pliocene: dal compagnetto dell’asilo all’amichetto del parco-avventura con cui era capitato di smezzare un Ciocorì a sei anni nell’estate dell’82, tutti, ma davvero T U T T I, nello sterminato albo amicale & ancor più mastodontica rubrica telefonica di maritt’, conservavano e tuttora conservano un angolino dedicato e un moto di tenerezza quando gli capita di ricordarli e risentirli. E cioè spessissimo.

In quell’inverno del 2005 già un po’ hollywoodiano di per sé – la guardinga Turin City in pieno fermento si apprestava ad accogliere il grande boom turistico collegato alle Olimpiadi invernali, con il centro città normalmente algido e austero scoppiettante 24/24 di stand, eventi ed emittenti televisive – camminare per strada mano nella mano con Daniele significava percorrere una sterminata passarella in cui sfilavano quasi esclusivamente comparse a lui note. “Ciao Tizio!” “Ehi Caia? Tutto bene? E tua sorella? Il cane…?”.

A me, ragazza più di campagna che di città, che facevo un vanto nel poter dire che sì, okay, conoscenti ne avevo a iosa ma gli amici veri su contavano sulle proverbiali dita della mano, l’impressione era quella di essere stata catapultata in un universo lontano e alieno.

Perchè, sia chiaro, le frequentazioni maritali non si limitavano certamente solo a questi, em, retaggi storici, ma ricomprendevano anche – soprattutto – un esorbitante numero di amici-amici. Scettica come solo chi a giorni alterni sogna di ritarsi a) a Gotham City o b) nella campagna non astigiana ma finlandese, ove il concetto di vicino di casa prevede boschi da attraversare e fiumi da guadare/su cui schettinare, per molto tempo ammetto di aver dubitato che una sola persona, peraltro occupata al lavoro otto ore al dì, potesse mantenere viva cotanta vita sociale, ma soprattutto chiamare “amico” così tante persone.

Col tempo, mi sono ricreduta. Per maritt’, le interazioni sociali – vedere gente, parlare con la gente, far cose con la gggente, e più ce n’è, meglio è – vengono davvero al primo posto (e qui invito tutti ad un momento di silenzio: potete vagamente immaginare quale fosse il suo umore, e di conseguenza il mio, durante il primo, drammatico, totale lockdown? Mi dico sempre che se non ci siamo salutati allora – alla presenza dell’avvocato, dico – non ci scollerà più niente).

Se costretto a farlo – costretto da me, dico – in realtà sa distinguere anche lui chi sono gli amici-amici dai semplici conoscenti, i coprotagonisti dalle comparse.

Resta il fatto che se volevi fare un torto a maritt’, ai tempi bastava rivelargli che Tizio, Caio e Sempronio si erano giusto visti il weekend prima per provare quel nuovo local…e ops, aspe’, non ne sapevi niente, arggg? Parlo al passato, però, perché negli anni quella che ha anche un nome tecnico (FOMO, Fear of missing out, paura di essere tagliati fuori) ha lentamente ma costantemente ceduto il passo ad un approccio alla socialità molto più contaminato dal mio zen.

C’è senza dubbio il tempo degli amici, delle rimpatriate, della convivialità, ma non posso smettere di credere che lo si apprezza veramente solo se a quello si alterna il tempo per la solitudine, la placida vita di famiglia/solitaria, le serie cringe su Netflix sbriciolando Toblerone l’introspezione, ecco. Diciamo che con gradod i convincimento diverso, adesso ne conveniamo entrambi.

Entrambi…ma non la minore!

Eh già: se credevo di aver archiviato tra i ricordi polverosi di gggioventù gli episodi – altrui – di ansia sociale collegata al non volersi perdere nemmeno un’unghia della social life de noiartri... Camilla mi conferma ogni giorno di essere degna figlia di suo padre.

Tanto mi assomiglia fisicamente, tanto il carattere è uno sputato copia&incolla delle idiosincrasie paterne.

L’ho realizzato un paio di weekend fa, quando tutta la sua compulsività da FOMO-girl è deflagrata di fronte all’inammissibile: un suo amichetto aveva organizzato una imperdibile serata pizza&Risiko, le sue amiche erano state invitate e lei … NO!

Giuro di aver asciugato calde lacrime e disseppellito memorie delle mie scuole medie da paria nostrano inviso pure ai bidelli e all’orologio da parete (occhiali da vista, apparecchio fisso, fisico informe e stigma tra gli stigma, figlia di una Prof!) che avrei volentieri lasciato languire per due o tre sere consecutive.

E proprio quando sembrava l’avessi persuasa che l’adolescenza è un periodo critico, perché fa ruotare l’autostima attorno al gruppo dei pari, ma unico è bello, non essere invitati a tutte le uscite, tutte le feste e non essere amico di tutti ma risultare invece spigoloso a qualcuno è perfettamente normale, e anzi distinguersi e autodeterminarsi è cool

l’amichetto ha invitato anche lei.

Al che padre, che chiaramente soffriva ma doveva farlo in sordina, e figlia si son battuti il cinque intonando le note di A E I O U Ypsilon ed hanno convenuto che l’occasione richiedeva un nuovo paio di Nike-non-so-che-modello “perché, dai, T U T T I le portano ormai!“.

Io comunque l’ho presa benissimo e infatti sono alla ricerca di voli solo andata per Rovaniemi.