Il solco, il sismografo, lo sharpei

C’è questo solco che mi taglia a metà la fronte, regalandomi un’espressione perennemente corrucciata, che sino a un mese e mezzo fa non c’era: una ruga d’espressione a mo’ di punto di domanda piazzata lì, esattamente tra le sopracciglia, ove sino a settembre s’allargava placida una spianata mediamente liscia.

Va da sé che qualche punturina ben dosata saprebbe appianarla, ma per ora non intendo far sparire nulla: mi fa tenerezza, quest’immagine di sharpei grinzoso che lo specchio mi restituisce, e pazienza se il colorito è cereo e sotto gli occhi galleggiano due sporte violacee che sembran scavate col cucchiaino.

Questa ruga, questo mio volto livido e tirato sono il sismografo di un mese e mezzo di agonia – agonia di una persona cara, in primis, e poi agonia di noi familiari che sino all’ultimo abbiamo comunque sperato, corso, lottato, domandato, contestato e infine pianto. Pianto moltissimo, con sguardi da pioggia che ci accompagnano ancora adesso anche quando sui volti s’allargano sorrisi di circostanza e stringiamo mani con gesti lenti e maldestri.

Avrei tanto, tantissimo da raccontare, ora che forse (FORSE) finalmente la capacità di pensare, rattrappitasi sotto il peso di tutta questa sofferenza, è tornata a brillare un po’. E’ però anche la stessa capacità che mi fa dire che anche no, va bene così, basta il solco tipo Gran Canyon a farmi da promemoria e non è il caso di metter nero su bianco insondabili abissi di mestizia – uno fra tutti, perché ognuno di noi ne conosce già di suoi, magari più profondi e paludosi ancora.

E perciò tornerò presto, ma per raccontare di liceali psicopatiche briose che un momento sembrano aver stretto un patto di iridescenza col cosmo e quello dopo si trasformano nella versione schizoide di Elon Musk; di letture tragicomiche, visto che ultimamente inanello solo libri brutti, toccando inediti livelli di trash (o forse in questo periodo anche ciò che è bello mi sembra orribile, chi può dirlo); di amicizie preziose come diamanti che non hanno mai smesso di starmi accanto, anche quando ascoltarmi era, oggettivamente, roba da tagliarsi i polsi; di pochi e discutibili nuovi acquisti (i calzini al polpaccio coi ricci, ne parliamo?), di aghi che scivolano sulla tela Aida con sempre più fatica ma per disegnare motivi..aum…alcoolici.

Dietro le quinte, il resto. Inteso come la manutenzione staordinaria di una routine famigliare allargata complicata come poche, sfidante come non mai, stancante machettelodicoaffà…? di cui però vado orgogliosa perché consapevole di non risparmiarmi nenache per un’unghia.

Mia suocera, una donna di casa d’altri tempi, ha sempre tenuto insieme la sua piccola famiglia con costanza e dedizione: mi piace pensare di averne preso le consegne e che ora lei, da Lassù, a questo arruffato sharpei perennemente in affanno, sorrida benevolo.

Ciao, Graziella.

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